43. 25 settembre 2023 – Montgomery
Qui non è Nuova York – Verso sud con Maria Teresa Cometto e Glauco Maggi
La città di Mobile alle spalle, puntiamo sulla capitale dell’Alabama e scopriamo che la superstrada US 43 è intitolata a Jefferson Davis, il primo e unico presidente della Confederazione degli Stati secessionisti. Come mai quel nome resiste? Abbiamo scoperto che in Alabama la governatrice Kay Ellen Ivey, 78 anni, ha firmato nel 2017 una legge che vieta di cambiare i nomi delle strade e di abbattere i monumenti che hanno almeno 40 anni, di fatto garantendo la intangibilità di tutti i tributi agli eroi confederati.
È il giusto inizio per calarci in una giornata che dedichiamo agli anni bui della schiavitù e del razzismo in America, visto che abbiamo in programma di passare da Selma, famosa per la marcia a Montgomery per rivendicare i diritti civili repressa dai manganelli della polizia del governatore Wallace, e di visitare poi il Museo e il Memorial dei linciaggi, inaugurato da un paio d’anni a Montgomery.
Prima di entrare a Selma, tappa obbligata all’Old Live Oak Cemetery, che contiene le tombe di molti leader confederati, con la bandiera d’allora, e ha un’area circolare, il Memorial Circle, che è “posseduta privatamente e gestita dalle United Daughters of the Confederacy (le Figlie della Confederazione), recita un cartellone all’ingresso. Nel 2015 eravamo stati in questo cimitero, dove una volontaria che faceva da guida ai turisti, una orgogliosa Figlia della Confederazione, aveva tentato di spiegarci che la guerra civile era avvenuta perché il Sud difendeva i diritti degli Stati, la tesi auto-assolutoria dei secessionisti che è l’opposto della verità storica.
Stavolta non abbiamo visto alcuna volontaria, il cimitero però è identico a quello che era. Intatto è il busto di Nathan Forrest, il generale sudista responsabile per il massacro di Fort Pillow, oltre cento soldati nordisti uccisi a sangue freddo.
Ed eccoci finalmente a Selma, sul ponte dedicato a Edmund Pettus, un ufficiale dei Confederati, poi leader del Ku Klux Klan dopo la Guerra Civile e infine senatore a Washington per dieci anni fino al 1907.
Alla base del ponte in contriamo Columbus. Fa il maestro in città, ma quando non lavora è qui per raccontare a chi fa il pellegrinaggio a Selma – la meta per turisti amanti della storia – la marcia della speranza, e della vergogna, fino alla capitale Montgomery. Suo zio l’aveva fatta, quattro giorni dal 21 al 24 marzo 1965, lungo la US Route 80: era il terzo tentativo dopo il primo, sanguinosamente fallito (Bloody Sunday) e la rinuncia del secondo.
Columbus è un volontario ufficioso, ma al centro poco distante, ufficialmente gestito dal Servizio dei Parchi Nazionali, Kenneth Williams, il ranger, ha parole buone per il “collega”. “È uno storico locale, ed è vero che suo zio era stato un marciatore”. A Kenneth chiediamo della situazione di Selma, storicamente celebre ma che ci appare in condizioni penose: case abbandonate, negozi chiusi, traffico quasi zero, la ghost town più famosa del mondo. “Vero, è proprio così. I turisti passano, fanno una foto del Pettus Bridge, e vanno via. Ci sono state tante celebrità, dall’attore e regista Tyler Perry a Barack Obama, tutti a promettere di fare qualcosa, ma non è successo niente…”, ci dice il ranger. “Prima del 1960 Selma era florida, ma paradossalmente le lotte per i diritti civili hanno spinto molti bianchi ad andarsene. Molte belle case, di loro proprietà, sono state abbandonate. Il mercato è crollato”.
Chissà se e come si potrà riprendere Selma, chiediamo? “È la concorrenza di Montgomery che toglie ogni spazio di turismo storico sul razzismo”, dice Williams. Nella capitale dell’Alabama il Civil Rights Memorial di Maya Lin, l’artista autrice del memoriale dei caduti in Vietnam a Washington, è da anni il più frequentato e rinomato. Ma non è più il solo ad essere degno di nota, e di visita. Da un paio d’anni è aperto anche il “Legacy Museum, dalla schiavitù alla incarcerazione di massa”, iniziativa da 20 milioni di dollari creata dall’avvocato Bryan Stevenson, i cui bisnonni erano schiavi in Virginia.
Il Museo, e il Memorial su una collina poco distante, sono artisticamente moderni e impressionanti. Abbiamo avuto la fortuna di visitarli, oggi che era giorno di chiusura, con una guida personale, Tania Cordes, manager delle comunicazioni di Equal Justice Initiative (EJI), l’organizzazione non profit che li gestisce.
Ci sono trovate tecniche rimarchevoli, come le dicei celle interattive: avvicinando il volto alla inferriata, si attiva il video con i protagonisti, gli schiavi che raccontano la loro esperienza. La mamma, il babbo, i due fratellini, un’amica della famiglia, una donna che canta un gospel. E anche le visite al parente in galera: ti avvicini al vetro, prendi il telefono, e lui dall’altra parte prende il suo e parla della sua condizione. Di grande effetto è anche il saloni con video a tutta parete, che mostrano le onde in tempesta viste dagli schiavi sulle navi che li trasportano al loro destino.
Sui pannelli dedicati alla storia ci sono i numeri di questo mercato esecrabile: i milioni mandati nell’America del Sud o nei Caraibi e, infine i milioni approdati sulle coste dell’Atlantico e del Golfo del Messico. Nulla di nuovo, qui. La sezione che, specificamente, caratterizza il museo è quella sui linciaggi. Dal 1877 al 1950, secondo l’EJI, ce ne sono stati 4400, e lo sforzo di Stevenson è di promuoverne la memoria, e preservarne il senso di “legacy” storica che contiene. Il museo definisce “terrorismo bianco” questo lungo momento in cui il suprematismo razziale negli Stati secessionisti ha compiuto crimini contro la comunità nera. La documentazione è raccapricciante, ma doverosa: foto di impiccagioni e mutilazioni, racconti di stupri e condanne ingiuste, filmati di drammi familiari ricostruiti e credibili. Nessun velo giustificazionista deve coprire lo sconcio commesso da quella società, i cui padri fondatori avevano promesso uguaglianza “sotto Dio”.
La marcia lungo il Memorial, all’aperto, poco distante dal Museo, è un viaggio nel passato, ma pure un monito severo per il futuro: mai più l’uomo deve commettere simili barbarie, lo stesso turbamento che tortura la mente quando si cammina in un campo di concentramento dei nazisti.
A Glauco è tornata alla memoria la visita fatta ad Auschwitz in Polonia nel 1975. Qui, l’idea della EJI di trasmettere il messaggio di condanna ha la forma dei vasi di vetro e delle forme geometriche metalliche. I primi, esposti nel Museo, contengono la terra raccolta dai discendenti o dagli amici delle vittime dei linciaggi nel punto fisico dell’esecuzione. Sopra ogni vaso c’è il nome e la contea (la provincia, diremmo noi). Non è stata una facile operazione, ed è ancora in corso: finora sono 800 i vasi raccolti. Ma non esiste una raccolta istituzionale degli eccidi, e nessuno è mai stato perseguito come crimine. Al tempo dei linciaggi, e nelle contee dove avvenivano, le autorità locali amministrative e della polizia erano spesso conniventi, se non addirittura parte, del KKK. Sono tutti, legalmente, “casi freddi”. Intento della iniziativa di Stevenson è di recuperare testimonianze, rapporti, ricostruzioni, per via familiare, così da riempire altri vasi, e rafforzare il senso di una giustizia ritrovata.
Le forme geometriche, invece, sono centinaia di “colonne” a forma di parallelopipedo, alte un paio di metri e larghe uno, in metallo colore della ruggine, ognuna per ogni contea in cui è stato finora documentato almeno un caso di linciaggio. Alcune, per esempio le contee dell’Alabama, sono piene di nomi a testimoniare la dimensione tragica della piaga. Vederle appese tutte in fila, o, in duplicato, stese sul prato verde lì vicino, costringe a leggere le migliaia di pagine della vergogna che non abbiamo mai sfogliato con la dovuta partecipazione.
L’intensità della denuncia del razzismo “attivo” nella fase storica dal fallimento della Ricostruzione PostBellum all’ultimo caso documentato, nel 1950, è il risultato dell’impegno dei promotori del Museo & Memorial, e va applaudito. Stevenson, 64 anni, ha dedicato la sua carriera legale alla causa della difesa dei minorenni che vengono incarcerati per sentenze lunghissime. Il suo impegno ha contribuito, tra l’altro, ad arrivare al verdetto della Corte Suprema del 2010 che ha dichiarato incostituzionale dare l’ergastolo ai minori di 18 anni. La sua filosofia, da avvocato, è basata sulla “giusta pietà”, la convinzione che anche a chi ha commesso seri crimini sia consentita una chance di redenzione.
Stevenson crede che questo approccio valga anche nei confronti dell’America bianca. “Io non sono interessato a parlare della storia dell’America perché voglio punire l’America”, ha detto al New York Times nell’occasione della inaugurazione del Museo. “Io voglio liberare l’America. Penso sia importante per noi fare questa iniziativa in quanto siamo una organizzazione che ha creato una identità che è dissociata dalla punizione per quanto sia possibile”.
Curiosamente, alla presentazione del Museo non partecipò Obama, che non risulta sia mai andato a visitarlo da quando è stato aperto (o, almeno, la nostra cortese guida, Tania Cordes, a domanda nostra ha detto di non saperlo). La validità della missione di non far cadere nell’oblio i linciaggi è encomiabile. Ma sul piano della storia in generale, vedendo la mostra nella sua complessità ci sono venute domande a cui non abbiamo trovato risposta.
Ci sono stati bianchi abolizionisti: perché non se ne fa alcun cenno?
Perché non sono riportati i casi dei bianchi, che si battevano contro la segregazione, uccisi dai suprematisti bigotti?
Della “guerra alla droga” intentata dal governo Usa negli Anni ’80 e ’90 si dice che è stata usata contro i neri per criminalizzarli. Se esiste il principio della responsabilità individuale delle persone, quando è stato che i neri, con 20-30 anni di diritti civili conquistati da Martin Luther King Jr., hanno cominciato a esserne titolari? O non lo sono ancora oggi?
Il Museo sembra sposare la tesi secondo cui ancora oggi il razzismo contro i neri è sistemico, eterno. Non offre argomenti per sostenere questa tesi, che viene data per scontata. Si arriva in fondo alla visita, passando attraverso una sezione artisticamente bella con quadri e foto militanti, e si incontra la storia e l’immagine di George Floyd, che uno si aspetta. Ma uno si aspetterebbe anche di incontrare, nel capitolo della condizione sociale e civile dei neri nel 2023, la storia e l’immagine di Barack Obama. Invece non ci sono né il suo nome né la sua immagine. Un’omissione perlomeno discutibile.
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