41. 23 settembre 2023 – Jackson
Qui non è Nuova York – Verso sud con Maria Teresa Cometto e Glauco Maggi
Questa mattina la colazione in stile classico del sud di Michael e Nicole, i padroni afro-americani del nostro bed & breakfast, è stata non solo eccellente, ma anche accompagnata da una chiacchierata ricca di spunti per qualche riflessione spiazzante. La mamma americana di Michael aveva sposato un nigeriano e la famiglia si era trasferita dagli Usa a Lagos. Il ragazzo era un adolescente e andava alla scuola media: parlava ovviamente inglese, come i coetani locali. “Ma ricordo che era una vita molto difficile. Ero sempre vittima di discriminazioni e mi chiamavano ‘yankee black’, ‘nero americano’. Yankee è termine dispregiativo e io ero molto a disagio per come ero trattato. Stavo male e per fortuna sono rimasto in Africa solo due anni”.
Michael ha fatto due turni di servizio militare e adesso lavora in una agenzia del governo statale della Louisiana a Baton Rouge. Dalla sua esperienza a Lagos ha tratto una lezione molto lucida. “Per capire un problema bisogna che sia raccontato da diversi punti di vista, situazione per situazione”, ha detto. E la moglie Nicole, accanto a lui, ha annuito convinta. Ovvio che il riferimento fosse al problema del razzismo ancora vivo negli Stati Uniti, malgrado le leggi e la Corte Suprema abbiano sancito la fine legale delle discriminazioni. Ma gli anni in Nigeria hanno offerto a Michael l’occasione di guardare al razzismo in un’ottica umana, universale: anche i ragazzi nigeriani sono capaci di essere dei bulli contro il “diverso” che hanno in classe con loro. Dove la diversità era l’essere americano, e che lui fosse nero non significava nulla per loro.
Come è arrivata la giovane coppia di neri di Baton Rouge a gestire un bed & breakfast? E qui esce la disponibilità a reinventarsi, nella vita, tipica degli americani. O almeno di quelli svegli e positivi. Circa due anni fa una forte tempesta si era abbattuta sul quartiere spagnolo, dove abitano Michael e Nicole. Molti loro vicini e amici persero la casa, mentre la loro restò abitabile. Per pura carità umana accolsero qualche famiglia, temporaneamente, nella parte della casa che non usavano. E da questi amici ebbero un suggerimento: “Siete in gamba ad ospitare gente a casa vostra, perché non aprite un B&B?”. La coppia decise di provarci.
Il business è partito bene, si divertono e sono felici. Hanno una figlia al college a New Orleans e Nicole, appassionata di storia ed ex guida in quella città, va a trovarla tutte le volte che può. In pochi secondi ci ha detto come la sta tirando su: “Prima deve laurearsi, poi sposarsi, e poi pensare ai figli”.
Se siete a Baton Rouge per un giro della Louisiana, segnatevi “The Cottages at Capitol Park”. Ottimo breakfast, e ottima famiglia.
Ottima gente anche a Independence, 90 chilometri a est di Baton Rouge. È chiamata la Little Italy della Louisiana, e noi possiamo testimoniare che se lo merita. Oggi era il giorno del gala “Sotto le Stelle” della comunità italiana, e quando siamo arrivati erano in corso i preparativi. Le decine di tavoli erano già sulla strada di fronte al Museo, pronte a ospitare le 300 persone attese per il cenone. Libby Rose è la direttrice dell’Italian Cultural Museum, che come sede ha una chiesa da tempo sconsacrata, la Mater Dolorosa, costruita 115 anni fa. “Dopo che era stata fatta una nuova chiesa cattolica qui accanto, negli Anni ’80 la Mater Dolorosa era rimasta vuota e inutilizzata”, racconta Rose. “Noi italo-americani abbiamo deciso di farne un museo, e a finanziarlo hanno pensato i discendenti degli immigrati”.
Il primo a nascere era stato il “Festival di Little Italy”, nel 1973. Nel 1980 diventò “Italian Festival”, che poi si è trasformato nel “Sicilian Heritage Festival” (Festival della tradizione siciliana) per rimarcare l’anima strettamente siciliana di questa comunità.
Il flusso di italiani aveva avuto inizio in questa area nella seconda metà dell’Ottocento, quando i padroni terrieri americani che producevano canna da zucchero non avevano più gli schiavi africani a disposizione. Una volta diventati liberi, i neri si erano trasferiti in altri Stati, al nord. “Per far venire i siciliani, gli americani pagavano il viaggio ai nostri antenati, e in molti accettarono”, racconta Donnie Orlando, presidente del Museo. Suo bisnonno fu tra questi.
“Dopo qualche anno di lavoro nei campi di canna da zucchero, i contadini siciliani impararono però che le fragole che crescevano qui, su questi terreni, erano dolcissime. Iniziarono a lavorare, raccogliendo le fragole nei campi degli altri e con i risparmi riuscirono a comprare della terra e a coltivare loro le fragole”, dice Rose. E ci mostra le cassette e i cestini esposti nel museo, quelli che i nonni utilizzavano a fine Ottocento. “Ma si usano ancora adesso perché le fragole sono una coltivazione di grande successo, qui, per merito degli italiani”.
“Il posto delle fragole”, mi viene da pensare. E l’importanza delle fragole nell’esperienza dei siciliani in Louisiana si propone come un intrigante parallelo sentimentale con il valore delle fragole nel vissuto degli svedesi, raccontati dal regista Ingmar Bergman. I siciliani di Independence non hanno avuto un cantore da Oscar per le loro fragole, ma la passione con cui, su questo frutto, hanno saputo costruire la loro storia americana con la dignità di un popolo sfruttato ma geloso delle proprie radici, vale anche di più.
Tanto orgogliosi sono, di essere italiani e siciliani, che in molti studiano ancora il dialetto dei loro avi. Non abbiamo incontrato qualcuno che parlasse italiano tra gli organizzatori del gala, ma Orlando (la sua famiglia è originaria di Palermo, e tutti i siciliani di Independence vengono da quella città o dai paesi vicini, come Corleone) ci ha detto che ci sono almeno una quindicina di persone che studiano il dialetto siciliano nel corso organizzato dalla comunità. Lo studente più vecchio ha 83 anni, il più giovane 31. Ciò è comprensibile. I bisnonni e i nonni che venivano alla fine dell’Ottocento in America parlavano solo il dialetto, nessuno sapeva l’italiano. E il mezzo dei discendenti, oggi, che desiderano riallacciarsi con la loro tradizione, con la loro memoria familiare, è la lingua siciliana.
Ma non si creda che gli immigrati siciliani di Independence non si sentano al 100% italiani. Orlando, a proposito, ci saluta con il suo motto: “Se hai un’oncia di sangue italiano sei italiano!”. Lui è il presidente del Museo e lavora affinché tutta la comunità supporti l’iniziativa. Ci presenta infatti un suo amico americano, marito di una siciliana, e un paio di volontari del Museo di origini francesi. La talpa “italica” scava anche in Louisiana.
Oggi, 23 settembre, è anche la data di inizio di una manifestazione, il Natchez Pilgrimage (il pellegrinaggio di Natchez), che dura ogni anno un paio di settimane in autunno (e quattro in primavera). Potrebbe essere chiamata crudamente “nostalgia e orgoglio del sud antebellum” (pre guerra civile), perché consiste in questo: i padroni delle ville di Natchez, la città sul Mississippi che era seconda solo a New Orleans come traffico degli schiavi, dalla fine dell’Ottocento le aprono ai visitatori per far ammirare a tutti lo sfarzo in cui vivevano i proprietari nel tempo andato. Il “pellegrinaggio” è insomma sempre stato concepito, dalla Ricostruzione postbellum in poi, come una celebrazione del lusso e del gusto che si respiravano nella società meridionale schiavista. È un revival, non dichiarato ma oggettivo, di un passato oggi impresentabile.
Ma visitare queste ville rischia di essere un’esperienza storicamente monca, distorta, censurata. È vedere il “bello” delle case che era costruito sulla schiavitù, chiudendo gli occhi al “brutto” della vita che conducevano gli schiavi.
Noi siamo invece andati a vedere la villa di John McMurran, un avvocato che venne dalla Pennsylvania a Natchez nel 1825 e fece fortuna in una quindicina d’anni comprando cinque piantagioni di cotone in diversi stati, dove lavoravano oltre 300 schiavi. La sua villa Melrose in città e il terreno annesso in cui visse con moglie e figli dal 1841, considerata tra le più belle per il suo stile greco-revival, è diventata parte del Natchez National Historic Park, un parco nazionale creato nel 1988, che permette di visitare non solo la villa, ma anche i bungalow dove vivevano i 15 schiavi incaricati dei servizi domestici. Non abbiamo insomma soltanto ammirato lo sfarzo e il lusso di una famiglia arricchita, ma anche dove e come vivevano i suoi schiavi.
La condizione di vita di questi schiavi era meno pesante, sul piano fisico, di quella di chi lavorava nelle piantagioni. Forse. Ma la disumanizzazione non era poi tanto diversa: mogli e mariti venivano spesso separati tra di loro, e dai loro figli; l’istruzione era negata a tutti; le punizioni corporee erano frequenti.
La visita nella villa del magnate del cotone di Natchez rafforza la condanna dell’abominio che tutti dobbiamo provare verso ogni negazione della libertà e dignità dell’uomo. E la schiavitù ne è l’epitome storica. Altro che orgoglio e nostalgia…
Da Natchez a Jackson, ho preso io, Maria Teresa, il volante, anche se odio guidare. Ma questa volta l’ho fatto volentieri sia per concedere un po’ di riposo a Glauco – il “designated driver” di questo viaggio – sia perché la strada su cui ho guidato è davvero speciale, piacevolissima e rilassante. Ve la raccomandiamo vivamente, se mai vi capiterà di passare da queste parti. È la Natchez Trace Parkway.
“Un viaggio in auto attraverso 10 mila anni di storia”, così la presenta il Servizio nazionale dei parchi americani che la gestisce. Immaginate: 715 km da Natchez in Mississippi a Nashville in Tennessee, passando per l’Alabama. È stata costruita negli anni Trenta del secolo scorso, uno dei grandi lavori pubblici durante la Grande Depressione, sulle tracce di un antico sentiero degli indiani. Che poi era stato usato anche dai coloni europei, dai mercanti di prodotti agricoli e di schiavi, fino a quando le navi a vapore sul Mississippi divennero un modo più conveniente per trasportare le merci. Per questo la Parkway è sempre in mezzo a boschi e prati, perché nessuna comunità si è sviluppata lungo il suo percorso.
La strada è relativamente stretta, non può essere usata da mezzi commerciali, quindi niente camion o pullman. Si svolge dolcemente ondulata e serpeggiante. Pochissime le auto incontrate nel tratto che noi abbiamo fatto, da Natchez a Jackson, 150 km. Avvistati alcuni tacchini selvatici e un ciclista, perché la strada è anche ciclabile. Ci sono anche alcuni interessantissimi siti storici da visitare, ma purtroppo noi non avevamo tempo.
Siamo arrivati a Jackson, la capitale del Mississippi, alle 6 di sera. Piuttosto stanchi. Ma per sgranchirci le gambe abbiamo fatto due passi nella zona dove si trovano il vecchio e il nuovo Campidoglio di questo stato. Il vecchio, in stile Greek Revival, risale al 1839 ed è stato usato fino al 1903; ora è un museo di storia locale. Il nuovo, in funzione dal 1903, è in stile Beaux Arts e ha in cima la statua dorata di un’aquila “calva” americana: appare fra l’altro nel film “The Help”, girato qui a Jackson e ambientato negli anni Sessanta del movimento per i diritti civili.
Jackson sarà anche “The City with Soul” – una città con l’anima – come recita l’attuale slogan pubblicitario, perché è la culla di numerosi musicisti di blues, gospel, folk e jazz. Ma a proposito di diritti civili ha un incredibile primato, abbiamo imparato. Quando il Tredicesimo emendamento alla costituzione fu approvato dal parlamento americano nel 1865, dopo la guerra civile, e adottato con la ratifica da parte di 27 dei 36 stati che allora facevano parte degli USA, il Mississippi fu uno di quelli che si oppose. I legislatori riuniti a Jackson erano arrabbiati per non essere stati compensati per la perdita di valore degli schiavi liberati. E così lo stato del Mississippi è stato l’ultimo a ratificare nel 1995, simbolicamente, l’abolizione della schiavitù; senza però completare tutte le procedure burocratiche per la registrazione del voto, avvenuta solo nel febbraio 2013. Fino a quella data, paradossalmente, questo stato non aveva mai ufficialmente abolito la schiavitù.
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