51. 3 ottobre 2023 – Front Royal

Qui non è Nuova York – Verso sud con Maria Teresa Cometto e Glauco Maggi

Lasciamo Charlottesville, e rientriamo nei boschi collinari della Virginia. Maria Teresa scherza sulla sua regione, il Piemonte (di Giosuè Carducci). “Siamo in Piedmont”, dice, “ma non vedo ‘le dentate scintillanti vette’.” Il parallelo con il Piemonte del poeta, però, regge quando percorriamo diversi chilometri lungo filari di viti. Sembra davvero di essere nelle Langhe. E non dimentichiamo, soprattutto, che il Monticello di Thomas Jefferson si trova a mezzora da qui, “nel Piedmont della Virginia”, secondo la descrizione del Servizio Nazionale dei Parchi che lo gestisce.

La meta di oggi è Front Royal, e per arrivarci attraversiamo lo Skyline Drive: è l’ultimo parco del nostro viaggio, ed il suo nome è figlio dell’epoca in cui fu concepito, gli Anni ’20-’30 del secolo scorso. Stava esplodendo il successo delle auto per un pubblico sempre più numeroso, e presentare l’esperienza di guidare (drive) sul crinale (skyline) dello Shenandoah, l’area più a nord degli Appalachi, era vincente sul piano pubblicitario: divertirsi in macchina e insieme godere, dal nastro d’asfalto creato lungo la cresta della montagna, del panorama rilassante delle vallate. E se la stagione è giusta, l’autunno, c’è anche il film a colori degli alberi le cui foglie si accendono di rosso e di giallo. Quando passiamo noi, oggi 3 ottobre, ne abbiamo avuto un assaggio, ma invidiamo chi sarà qui fra 10-15 giorni.

Il contesto culturale turistico degli inizi del Novecento, nell’America sfrenata per la  sua rivoluzione industriale, era quello ben rappresentato dal primo presidente devoto alla protezione della natura, Teddy Roosevelt, l’apostolo dell’ambientalismo. E John Muir, conservazionista e promotore dei parchi nazionali, nel 1914 espresse questa filosofia con una dichiarazione riportata all’entrata del Visitor Center dello Shenandoah National Park a Big Meadows, nel punto più elevato della strada, 1121 metri: “Migliaia di persone stanche, dai nervi scossi, iper-civilizzate stanno cominciando a scoprire che andare sulle montagne significa andare a casa; che la natura selvaggia è una necessità; e che i parchi in montagna e le riserve naturali sono utili, non solo come fonti di legname e di fiumi che irrigano, ma anche come fontane della vita”.

Queste parole catturano lo spirito che animava le élite economiche, culturali e politiche del tempo: attente a compensare lo sviluppo capitalistico, industriale e inquinante, con l’impegno per la conservazione della natura, nelle sue parti ancora vergini, non contaminate.

Il movimento ambientalista, come lo chiamiamo oggi, non ha però operato con lo stesso ritmo, e con gli stessi modi d’intervento, in tutte le regioni americane. Roosevelt, newyorkese, fu il primo a sviluppare la sua missione salva-natura, e lo fece nel West per un paio di motivi fondamentali: il territorio dell’estremo nord-ovest era eccezionalmente bello, unico, salubre; e lui, fisicamente gracile da bambino, si irrobustì grazie al tempo passato in Nord Dakota.

Non servono nemmeno le parole per spiegarlo, essendo ora sotto gli occhi di tutti: al visitatore-esploratore del tempo di Teddy, la geologia millenaria drammatica, la vegetazione selvaggia, i resti delle civiltà native si imponevano senza fare sforzi. Per questo i primi “monumenti” designati tesori naturali, e i primi parchi nazionali creati e istituzionalizzati dal governo centrale, erano negli Stati occidentali.

Nella parte orientale degli Stati Uniti la situazione era strutturalmente diversa: da una parte la East Cost è stata la culla delle attività industriali e commerciali che hanno favorito l’arrivo e la concentrazione di milioni di persone, prima che succedesse ad ovest; dall’altra, oggettivamente, la porzione d’America a destra del Mississippi non dispone di un patrimonio di bellezza e di unicità spontanee che regga al confronto con il campionario da film, e da cartolina!, di stati come l’Arizona, l’Utah, il Montana, l’Idaho, il Washington State o i due Dakota.

L’aspirazione a cogliere e a preservare la natura anche negli Stati orientali ha dunque preso forza dall’esempio dell’Occidente, e sono così nati progetti per lo sviluppo della conservazione anche sulla East Coast. La originaria idea dello Shenandoah National Park è del 1924, ossia in coda al movimento verde che aveva sfondato ad ovest. Ma pure molti anni prima del New Deal di Franklin Delano Roosevelt degli ‘Anni 30.

Il presidente eletto nella disperazione popolare per la Grande Depressione creò un’agenzia per dare lavoro ai milioni di disoccupati. In particolare furono assunti milioni di giovani americani disposti a lavorare per opere pubbliche, tra cui le migliaia impegnati a portare a compimento la missione dello Shenandoah, che fu inaugurato nel 1935.

Si trattava, qui, di trasformare un patchwork di oltre un migliaio di foreste, terreni, orti coltivati, fattorie, che erano posseduti da privati, in un territorio verde “naturale”, che sarebbe stato protetto per sempre.

Nel Visitor Center del National Park Services, onestamente, raccontano che la vicenda ha due aspetti. Quello positivo è sotto gli occhi del turista che arriva qui: può percorrere ore nel bosco, in auto o sui sentieri per fare le sue passeggiate; può stare nei campeggi; può bere dalle “fontane della vita” di Muir.

Però c’è anche l’opera di violenza di Stato, “sociale”,  esercitata sulle persone che abitavano su queste montagne da generazioni, e vi vivevano benissimo. Ritagli di giornali degli Anni ’30, appesi nelle bacheche, riportano articoli scritti dai residenti cacciati, o in procinto di esserlo, in cui lamentano l’ingiustizia di essere agnelli sacrificali per una causa che non è la loro. Anzi, dicono in sostanza, siamo noi i naturali conservazionisti, e chiediamo di essere lasciati in pace. Ci sono anche aspetti odiosi, letti oggi, che dovrebbero fare arrossire gli “interventisti a fin di bene” di allora. Come quella reporter, incaricata di andare nel territorio da destinare a parco per descrivere gli abitanti, che concluse la sua inchiesta dicendo che era gente rozza, arretrata, e che farla sloggiare sarebbe stato agire per il loro bene.

“Molti residenti si sono dispiaciuti per i racconti sulle loro vite visti da una parte sola”, si legge su un pannello scritto dal Parco per completezza di informazione. “Le immagini di case ben tenute e di fattorie di successo (a fianco del testo si vide una foto di una villetta linda e graziosa, NDR) venivano raramente usate da coloro che descrivevano le condizioni delle aree da destinare a parco”. Ovviamente per non dare spazio al dissenso dei diretti interessati, che inficiava la causa degli ambientalisti. E, viene da aggiungere, sicuramente per favorire, assieme ai verdi in buona fede, tutti i soggetti politici e commerciali interessati a perseguire grandi guadagni dalle attività legate alla pavimentazione di centinaia di chilometri di strade. Dove, prima, c’erano solo sentieri, cervi e montanari, la quintessenza dell’ambientalismo.

Ultima nota per strappare un amaro sorriso. Le contraddizioni della storia, e le relative ingiustizie normative, producono distorsioni a catena. Un enorme manifesto rigido, che era stato piazzato all’ingresso di una delle piazzole-belvedere lungo il parco negli Anni ’40, cioè quando c’era la segregazione legale tra neri e bianchi in Virginia, riporta che questa area “è riservata ai Negri”. Di fianco, c’è una lettera ad un giornale locale che si lamenta, ma non per il principio della segregazione di per sé, anzi.

“Perché io, bianco della Virginia, non posso godere di questo panorama?”, si chiede il lettore arrabbiato.

Entriamo finalmente a Front Royal, al tramonto, e siamo eccitati al pensiero che sarà la nostra ultima notte d’albergo. C’è il tempo per scoprire che la cittadina ha un passato Confederato, e non lo rinnega. Nella piazza di fronte al vecchio tribunale della Contea c’è una grossa placca metallica che ricorda la “cattura di Front Royal” da parte del generale Stonewall Jackson, che ha conquistato “questa città dalle forze della Unione sotto il colonnello Kenly, il 23 maggio del 1862”. A fianco c’è una cronaca piuttosto dettagliata della battaglia vinta dai sudisti, a testimonianza del fatto che la ‘cancel culture’ non è riuscita ovunque a fare sparire pagine controverse. Dove una cittadinanza ha conservato la memoria di quel passato bellico in quanto fatto storico, possono sopravvivere anche i monumenti, e persino un museo. Il più importante l’abbiamo visto sulla via poco distante, sempre nel centro storico: è il Warren Rifles Confederate Museum, completato nel 1959 e diventato il quartier generale delle United Daughters della Confederazione, l’organizzazione della Figlie della Confederazione. Qui è conservata una delle collezioni di memorabilia dei Confederati più importanti del paese, tra cui il cannone originale di Stonewall Jackson e la bandiera della Unione ceduta alle truppe di Jackson quando i nordisti si arresero alla fine della citata Battaglia di Front Royal.

Siamo finalmente alla cena, l’ultima dopo quasi due mesi di scorribande culinarie in mezza America. Per un gioco del destino, il ristorante a due passi dall’albergo è italianissimo, con bandiera tricolore e insegna più che familiare: Osteria Maria. Ci accoglie Maria Cristina, nata in America con origini vicentine e salernitane. Salerno? Dove? “Avete visto ‘Benvenuti al Sud’? È il film girato a Castellabate, con Claudio Bisio e Angela Finocchiaro. Ho riconosciuto tanti compaesani…”, dice Maria Cristina. L’avevamo visto, e ci eravamo divertiti un sacco. Come preparazione al rientro a New York, che dopo il profondo sud e sud-west dell’America ci sembra una provincia italiana, non ci poteva essere un miglior viatico.

Ok, mancava ancora la qualità della cena ed è stata un’ottima scoperta: pasta fatta in casa, casarecce alla puttanesca e pappardelle al ragù bolognese; focaccia croccante con rosmarino e aglio; polipo alla griglia e tiramisù; vino, Montepulciano d’Abruzzo. Il titolare del locale è il figlio 24enne di Maria Cristina, Biagio, che ha imparato a fare il cuoco al celeberrimo ristorante a tre stelle Michelin di Little Washington fino a quando, un anno e mezzo fa, ha deciso di aprire un ristorante tutto suo qui a Front Royal, dove oggi è il solo che offre cucina italiana.

Gli facciamo i complimenti, e gli auguri di buon business. Ci sono molti italiani qui, chiediamo? “Ci sono dei giovani di Comunione e Liberazione, che frequentano il Christendom College”. Autenticamente cattolica, questa scuola non accetta alcuna forma di finanziamento federale. Era stata fondata nel 1977 dall’americano Warren Carroll, storico del cristianesimo e della chiesa di Roma, e i suoi studenti fanno un semestre di studi nella città eterna, nei pressi del Vaticano. Nel 2018, il discorso di chiusura dell’anno scolastico fu tenuto dal giudice afro-americano della Corte Suprema Clarence Thomas, cattolico e conservatore.

Chi si immaginava di scoprire, a tempo scaduto del nostro viaggio, questa istituzione, tanto vicina alla Chiesa cattolica romana, in una cittadina della Virginia mai sentita nominare prima? La realtà è che la conoscenza di questo Paese è un work in progress che non ha mai fine.

Cliccare sulle foto per leggere le didascalie

TORNA ALLA MAPPA DEL VIAGGIO
TORNA ALLA STOÀ

Le altre tappe del viaggio di Maria Teresa Cometto e Glauco Maggi

2023-10-04T07:51:17+02:00
Torna in cima