32. 14 settembre 2023 – El Paso

Qui non è Nuova York – Verso sud con Maria Teresa Cometto e Glauco Maggi

Stamane, sulla strada numero 28 da Mesilla verso El Paso (Texas), prima di lasciare il Nuovo Messico abbiamo attraversato piantagioni di cotone ed enormi boschi di piante da noci. Ad uno scenario agricolo tanto verde non eravamo più abituati, dopo giorni e giorni di dominante panorama desertico. Abbiamo anche visto alcuni vigneti con i relativi inviti al free tasting che, vista l’ora e la strada ancora da fare, abbiamo declinato.

Ci aspettava il Texas nel suo punto più “messicano”, El Paso, la “capitale” del problema della immigrazione dal sud. Ma, appena entrati in città, siamo stati colpiti dalla visione lontana di bizzarri edifici in stile asiatico. Non potevamo non cercare di capire di che cosa si trattasse, e arrivati vicino abbiamo visto che i tetti gondoleggianti dei palazzi e il rosso delle decorazioni e dei fregi erano dietro un enorme muro con la scritta UTEP, University of Texas at El Paso.

D’accordo che le università dovrebbero essere siti di sperimentazioni e di apertura culturale, ma tutte quelle che ci è capitato di visitare in America, almeno sul piano architettonico, si sono sempre fatta la concorrenza per chi è più “classica”. Addirittura, dopo che fu costruita, Yale fece colare un acido corrosivo sui suoi muri esterni per creare un effetto “anticato”, cioè per apparire più vecchia. Alla UTEP hanno invece pensato di essere classici, ma di una classicità diversa: ispirata al Bhutan,  un regno himalayano tra la Cina e l’India.

È andata così. L’università di El Paso fu inaugurata nel 1913, ma due anni dopo andò distrutta per un incendio. Una nuova sede fu costruita nel 1917 su un diverso terreno donato dagli abitanti, sulla collina Mundy Heights al Paso del Norte, dove è ancora oggi. La moglie del rettore, Kathleen Worren, era stata conquistata da una copertina del National Geographic del 1914 dedicata alla architettura in stile dzong dei monasteri del Bhutan,  e se ne ricordò quando venne il tempo di ricostruire l’università. Mentre, come dicevo, lo stile vincente tra gli architetti americani che disegnavano palazzi importanti era improntato al neoclassicismo greco-romano, la signora, evidentemente tanto influente da saper imporre un’idea così controcorrente, convinse gli amministratori a costruire la sede della Geologia, la facoltà più rilevante dell’ateneo, nello stile del Bhutan. La sua tesi fu che quella zona collinare di El Paso era particolarmente adatta a replicare i templi del Bhutan, eretti su simili territori.

Il primo palazzo piacque a tutti, e il modello fu poi adottato per gli altri edifici del college. Ormai l’immagine generale di questa università è uniformemente “himalayana”, compreso lo stadio del football americano, il Sun Bowl. Il Bhutan ha apprezzato l’adozione della propria storica architettura da parte di El Paso, tanto che il principe Jigyel Ugyen Wangchuk ha visitato il campus nel 2009 e regalato all’UTEP un tempio in legno, con il portale e le finestre di legno finemente intagliate, che abbiamo immortalato per voi con la foto di rito.

Il gemellaggio tra Buthan e UTEP è solidissimo. Lo si vede dalla mostra “Il moderno e il tradizionale interconnessi”, aperta fino al 9 dicembre presso il Centennial Museum and Chihuahuan Desert Garden, il museo e il giardino interni all’ateneo. Il Bhutan ha le radici nella tradizione, e per qualcuno sarebbe “il posto più felice al mondo”. Da qualche decennio ha deciso di fare un tuffo nella modernità. E ha inventato una definizione astratta e futuristica del PIL (Prodotto Interno Lordo), che ha chiamato Gross National Happiness (Felicità Lorda Nazionale). Ha cioè sostituito al normale calcolo della produzione di beni materiali e di servizi, usata dagli economisti per misurare la ricchezza di un Paese, con un diverso metro, basato sui valori culturali e spirituali della tradizione locale e nazionale bhutanese, che sarebbe la vera chiave per la felicità.

Il paradosso è trovarsi a El Paso a discettare, in un ateneo, sulle diverse  filosofie verso la felicità di due storiche culture, mentre a un paio di chilometri c’è la rappresentazione modernissima di un dramma sociale. El Paso ha 679 mila abitanti ed è proprio al confine con il Messico. Di fatto è uno dei maggiori porti di ingresso degli immigrati “regolari”, intendendo con questo termine quelli che si presentano alle guardie di frontiera e fanno la domanda di asilo. In città attualmente ne arrivano quasi 1.000 al giorno, e aumentano. Sugli altri immigrati che riescono a venire qui di nascosto, o attraversando il Rio Grande o lungo il confine di terra tra la California e il Texas, bypassando il Muro, non ci sono ovviamente cifre.

Che cosa succede a chi si consegna ai frontalieri? Ne parliamo con Alana, appena laureata in Matematica e Informatica nel college cattolico di San Joseph a Filadelfia. Da un mese e mezzo fa la volontaria alla Annunciation House e si è impegnata a stare qui per un anno. È cortese ad accoglierci nel ricovero della organizzazione, al numero 1003 di E. San Antonio, e a dirci quel che ha imparato. “Questo è uno dei nostri tre siti. Qui abbiamo posto per una quarantina di persone per la notte. Qualcuno sta anche un giorno solo, se ha uno sponsor, un parente o un conoscente, che gli paga il biglietto per andare da lui. Ma in generale stanno più a lungo, e ognuno è un caso a sé”.

Mentre siamo con lei, contiamo nella sala di ingresso almeno cinque bambini e tre donne. Tutto è molto tranquillo e i piccoli giocano. E gli uomini, chiediamo? “Ce ne sono, ma sono liberi di andare dove vogliono. Alcuni cercano di lavorare, ci sono persone che danno loro qualcosa da fare; naturalmente in nero, non lecitamente perché per avere il permesso devono essere in regola…”

Gli immigrati vengono rilasciati subito dopo la registrazione al confine, e il passo successivo è dove andare a dormire. “Alcuni vengono accompagnati qui da noi dalle guardie, e poi comincia l’attesa. Una minoranza di loro fa qui, a El Paso, la domanda al tribunale che deve valutare se hanno un valido motivo per chiedere l’asilo. In Texas, stato conservatore, i giudici sono meno inclini ad accettare la domanda, ed è per questo che gli immigrati per lo più vogliono andare a New York, o a Denver o a Chicago, dove è più probabile che siano promossi”. La “promozione” consiste nella valutazione del giudice sul caso. “Se l’immigrato argomenta in modo convincente che la situazione da cui è fuggito è davvero grave, che lui è in pericolo o pesantemente discriminato, per sesso, per motivi razziali o politici, allora passa ”.

Non basta insomma dire “voglio l’asilo per vivere una vita migliore”, o “perché voglio guadagnare di più”, spiega Alana, che aggiunge: “Ecco perché ci vuole un buon avvocato – e molti ce ne sono che lo fanno gratis – che prepari l’immigrato a preparare il suo caso”.

Nel ricovero della Annunciation House il clima è sereno, sembra di essere in una scuola. Ci sono altri volontari, e nessuno tradisce un’ansia particolare. “L’asilo è un diritto riconosciuto”, dice Alena. “Io, dopo aver fatto un breve periodo di prova qui, ho deciso di dedicarmi con tutta me stessa a questa causa. Sono orgogliosa di essere americana e che l’America faccia tutto il suo dovere nell’accogliere questa gente. È il sogno americano, dopotutto… Non lo capisci se stai solo a Filadelfia, dove viviamo in una bolla”.

La giovane volontaria è l’immagine pulita di un volontariato generoso. Ma ai nostri occhi anche la sede della Annunciation House è una bolla. Usciamo per visitare un altro centro di accoglienza che ha la base nella Chiesa del Sacro Cuore, Sacred Heart Church, non molto distante. Inutile cercare di entrare, i volontari ci avrebbero raccontato la stessa storia, la stessa procedura, con lo stesso entusiasmo. Fuori, invece, abbiamo visto decine, centinaia di persone, bivaccare sul marciapiede assolato e sporco. Molti uomini, molte donne e molti minori. Il comune di El Paso, arrendendosi di fatto ad una emergenza senza alcuna fine in vista, ha piazzato sette gabinetti di plastica nella via adiacente la chiesa, quelli provvisori che di norma si mettono per qualche evento sportivo o per una fiera, e che poi si tolgono. Tutto il quadrilatero attorno al Sacro Cuore è un accampamento e abbiamo visto un signore anziano, con il sapone in mano, fare il bucato con un secchio d’acqua ai piedi.

Evidentemente il municipio di El Paso, che ha sospeso da qualche mese la pratica di mandare con i bus a New York gli immigrati, si è rassegnato a convivere con la disperazione di questa gente per strada. E i cessi blu sono la bandiera della resa.

Cliccare sulle foto per leggere le didascalie

TORNA ALLA MAPPA DEL VIAGGIO
TORNA ALLA STOÀ

Le altre tappe del viaggio di Maria Teresa Cometto e Glauco Maggi

2023-09-16T08:09:58+02:00
Torna in cima