7. 20 agosto 2023 – Charleston

Qui non è Nuova York – Verso sud con Maria Teresa Cometto e Glauco Maggi

Il giorno ideale in cui essere a Charleston per un visitatore della Carolina del Sud è la domenica: le chiese, le messe cantate, le congregazioni attive in una partecipazione corale con il massimo sentimento. Noi abbiamo vissuto l’esperienza nella Mother Emanuel, la chiesa africana metodista episcopale che era tragicamente finita sulle prime pagine nel mondo intero nel 2015 per l’eccidio di nove neri, tra cui il pastore Clementa Pinckney, per mano di un suprematista bianco.

Sono le 10 e sta per iniziare la messa. Molto anziana, e molto elegante, una fedele si alza dalla fila di sedie immediatamente davanti a noi, che ci eravamo appena seduti. Si gira e ci dà la mano di benvenuto. Siamo i soli bianchi, non passiamo inosservati. “Da dove siete venuti fin qui, a Charleston?”. E sorride, sorpresa e felice, quando sente che siamo di New York. “Da tanto lontano? Bless you, bless you (che Dio vi benedica)!”

Siamo entrati in questa chiesa, che ha subito quello che ha subito, senza essere sottoposti, né noi né nessun altro, ad alcuna verifica di sicurezza. È bianchissima e solenne all’esterno, colorata dentro e ricca di mosaici sulle vetrate. Alla destra dell’altare, ci sono il pianoforte e la batteria, e tre microfoni per le cantanti. Nella balconata, sul lato opposto all’orchestra, proprio sopra di noi, c’è un fedele che suona la tromba. La messa metodista episcopale è un misto armonico di canzoni e di sermoni del reverendo Eric S.C. Manning. E di chiamate all’altare.

Questo è il weekend che precede l’inizio dell’anno scolastico, e il pastore invita gli insegnanti e poi i genitori e i nonni di studenti, a raggrupparsi davanti all’altare: è la sua benedizione del ritorno in classe dedicata alla sua congregazione. Quello che ci colpisce (i riti cattolici sono più impersonali) è la conoscenza personale del reverendo di tutte le persone presenti. Sembra un club, per un verso, ma aperto e, senza nulla di esclusivo. Anzi, lui esprime la sua gioia per la presenza, anche, di gente “da fuori”.

Il messaggio ricorrente, ribadito a più riprese, è: “quello che hanno preso da te, Gesù te lo restituisce”. La gente lo vuole sentire, l’aspetta e fa sempre il controcanto di “alleluhia alleluhia”, “Gesù salvaci”. Il reverendo usa la tecnica del discorso a ritmo e volume crescente, è coinvolgente, e suda. Si deterge e riprende. È uno show, e siamo certi che la definizione della sua performance non lo offenderebbe, se stessimo fino alla fine e glielo dicessimo. Invece, dopo quasi due ore, dobbiamo uscire per avere il tempo degli altri due impegni che ci siamo dati per oggi: la visita al museo degli afro americani, appena inaugurato, e il traghetto per Fort Sumter, la cui ultima corsa è alle 14,30!

Iniziamo dal museo, e con una testimonianza diretta di Maria Teresa.

Cresciuta in mezzo alle risaie del Novarese, con una nonna mondina di Arborio – la patria del riso omonimo in provincia di Vercelli – è stata grande la mia sorpresa di scoprire che la prima fonte di ricchezza di Charleston è stato il riso, e grazie agli schiavi che sapevano coltivarlo. È uno dei fatti che abbiamo imparato visitando il nuovissimo – inaugurato quest’anno – International African American Museum. Una visita che raccomandiamo vivamente.

L’Oro della Carolina, il Carolina Gold, era la specie più pregiata. Ma il fatto è che qui le risaie le hanno create e le hanno rese produttive gli schiavi che venivano dalla costa Nord-Occidentale dell’Africa, dove da centinaia di anni sapevano coltivare il riso. Quando i padroni delle piantagioni della costa della Carolina del Sud – Lowcountry – l’hanno scoperto, hanno sfruttato le conoscenze e l’esperienza degli schiavi per sviluppare questo business. I commercianti di schiavi pubblicizzavano l’arrivo dei carichi dei “Neri dalla costa del riso”. So quanto era duro per mia nonna lavorare per ore e ore con le gambe nell’acqua delle risaie sotto il sole cocente, ma non so immaginare quanto fosse duro per gli schiavi sotto un sole molto più ardente, trattati come animali. Le loro condizioni erano così disumane, si legge su uno dei cartelloni del museo, che erano frequenti le ribellioni, le fughe, oppure il sabotaggio del lavoro in vari modi, rallentandolo, rompendo gli attrezzi, distruggendo i campi. C’era chi cercava di avvelenare i padroni e i più disperati si suicidavano.

Il museo non solo racconta benissimo origini e storia dello schiavismo, spiegando quanto fosse una pratica che coinvolse non solo gli USA ma anche l’Europa e i Caraibi e gli stessi africani, quelli che gli schiavi li vendevano. Parla anche del recente passato e di oggi. Diversi testimonial afro-americani, giovani e non, uomini e donne, raccontano in video la propria esperienza che documenta come il razzismo sia ancora vivo. Per esempio, un ragazzo ricorda di quando è stato fermato da poliziotti bianchi mentre guidava e accusato di essere un trafficante di droga solo perché nero. Un’esperienza così comune che è capitata cinque volte anche al senatore nero Repubblicano Tim Scott, nato a North Charleston: in un discorso ha detto che chi vuole capire l’America deve venire qui.

Ultima nota: anche in questo museo c’è un pezzetto d’Italia. Nel senso che uno dei suoi giardini, il West Yard, è in memoria della benefattrice contessa Alicia Spaulding-Paolozzi, moglie del conte italiano Lorenzo Paolozzi, architetto e artista. Lei e lui insieme hanno lavorato al lancio del Festival dei due mondi a Spoleto e a Charleston.

Lasciato il Museo internazionale afro-americano, passiamo all’episodio che è storicamente fondamentale nella guerra sanguinosissima che ha abolito lo schiavismo negli USA, tenendo unito il Paese.

Sumter è il fortino sull’isolotto di fronte alla baia di Charleston, a cui il destino assegnò il ruolo di scintilla che ha fatto scoppiare la Guerra Civile americana. Era il 12 aprile del 1861, e le forze confederate condussero un bombardamento da terra che durò 34 ore, finché il generale dell’Unione dovette arrendersi e concordò la resa. Tutti i soldati nordisti poterono lasciare il fortino, tranne uno che era morto durante l’attacco, ma non colpito da fuoco nemico. Ad ucciderlo era stato un incidente occorso al cannone che stava maneggiando durante le operazioni di tributo alla bandiera, 100 colpi nel vuoto, prima che fosse ammainata dopo la resa. Comunque sia, della carneficina che fu il conflitto (la ranger del Parco del forte Sumter ha detto che ci furono 700 mila vittime complessivamente dalle due parti, militari e civili compresi) lui, il soldato semplice Daniel Hough, del primo corpo di artiglieria degli Stati Uniti, è stato il primo a morire.

Il Forte Sumter era stato costruito su un’isola artificiale di fronte al Fort Moultrie, sulla terraferma. Le due postazioni servivano a proteggere la baia di Charleston, importantissimo porto commerciale, tanto che la città a quel tempo era più ricca di New York. Il comandante dell’esercito degli Stati Uniti di quella area, Robert Anderson, aveva il suo plotone nel Fort Moultrie. Così, quando la Carolina del Sud si schierò con gli altri Stati confederati Anderson e i suoi soldati, fedeli all’Unione, si trovarono di fatto in uno Stato straniero. L’ufficiale decise di spostare i suoi 85 uomini nel Fort Sumter, ritenendolo più sicuro. I confederati, ovviamente, consideravano Sumter come parte della Carolina del Sud e intimarono ad Anderson l’evacuazione. Al suo rifiuto, nella notte del 12 aprile spararono una cannonata sul fortino, e i Nordisti risposero al fuoco. La Guerra Civile era cominciata, e per anni Fort Sumter resistette agli attacchi dei nordisti che volevano riconquistarlo. Solo il 22 febbraio del 1865 gli Stati Uniti ripresero il controllo di Fort Sumter, e il 14 febbraio lo stesso Anderson, che si era arreso quattro anni prima lasciandola ai sudisti, partecipò alla cerimonia che celebrava la riconquista. L’ufficiale, che aveva conservato la bandiera originale, la riportò nel fortino. Ora la si può ammirare, molto ben conservata, nel museo all’interno di Fort Sumter. Bandiera della prima resa dell’Unione, è oggi il simbolo della resistenza americana di fronte alla prova forse più dura della sua storia.

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Le altre tappe del viaggio di Maria Teresa Cometto e Glauco Maggi

2023-08-24T10:21:59+02:00
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