9. 22 agosto 2023 – Atlanta

Qui non è Nuova York – Verso sud con Maria Teresa Cometto e Glauco Maggi

Atlanta è stata nell’ultimo secolo un crogiuolo di contraddizioni socio-politiche, e un episodio che lo simboleggia perfettamente l’abbiamo imparato visitando il Museo e Biblioteca presidenziale di Jimmy Carter (in carica da inizio 1977 a inizio 1981), che si trova alle porte della città se si arriva da Savannah.

Il 39esimo presidente è nato nel 1924 a Plains, in Georgia, in una famiglia unita in tutto, tranne che sulla segregazione. Lo smantellamento dell’odiosa pratica, che sul piano federale era stata bandita dalla Corte Suprema con un verdetto del 1954, di fatto non ebbe piena applicazione negli Stati della ex Confederazione se non negli anni successivi, e con passo diseguale da Stato a Stato. In casa Carter, il padre era stato un ostinato difensore della segregazione, mentre la madre era una fervente abolizionista, e fece da modello virtuoso per il figlio. Infatti, Jimmy crebbe convinto della iniquità della segregazione, anche perché la sua famiglia aveva in casa dipendenti di colore, ed una donna nera era stata la sua babysitter. D’altra parte, tuttavia, il conflitto su questa questione non impedì a Jimmy di ammirare il babbo per tutto il resto: ottimo lavoratore, ottimo padre di famiglia, robusta etica religiosa. Quando il padre morì, Jimmy (lo racconta nei filmati del suo museo) sentì di dover seguire le orme del padre che era sempre stato civicamente impegnato nella comunità. Quindi Jimmy si diede alla politica, prima un paio di volte senatore dello Stato, quindi governatore e, infine, presidente. Seguendo il curriculum lungo i pannelli e le illustrazioni del Museo, dalle sue dichiarazioni e interventi emerge la figura di un politico che poneva la lotta per la fine delle ingiustizie e dei drammi sociali, della povertà e delle guerre, al centro del suo impegno. L’episodio del dissidio in famiglia mostra come la strada per l’emancipazione e gli avanzamenti sociali sia lastricata di idee, anche sbagliate, in continua battaglia tra loro.

È ovvio che questi Musei e Biblioteche presidenziali sono istituzioni create dagli stessi presidenti cui rendono omaggio, ma noi le troviamo molto interessanti (ne abbiamo diverse altre sulla strada, e vedremo di andarci). Non si può pretendere che siano fotografie indipendenti e critiche di una presidenza, per quanto ciò possa mai essere possibile. Il loro fine dichiarato è di fornire, preservandolo, materiale sulla vita di un presidente ad uso del pubblico. Ci sono anche aneddoti ed oggetti divertenti. Per esempio, negli armadi pieni di regali fatti a Carter, abbiamo scovato una grande bambola rosa che il politico italiano Giulio Andreotti aveva donato alla sua  figlia più piccola, l’unica che aveva abitato alla Casa Bianca con il babbo e la mamma Rosalyn. L’unico mandato quadriennale di Carter (spiritosamente lui si definisce un pensionato involontario) è stato ricchissimo di fatti storici. A parte le vicende domestiche della segregazione nelle scuole che teneva ancora banco, l’attualità di politica estera che Carter dovette affrontare era stata ricchissima: gli accordi di Camp David tra Egitto e Israele; la tensione per il Canale di Panama da restituire alla nazione centro-americana; l’invasione russa dell’Afghanistan con il boicottaggio dei Giochi Olimpici di Mosca; il sequestro di centinaia di diplomatici USA tenuti in ostaggio dall’Iran, episodio che chiude la sua presidenza. Ma ciò che ha segnato in maniera più devastante il suo governo, a livello di percezione popolare diretta, era stata la crisi energetica e inflazionistica.

Quando visitiamo luoghi della memoria come queste biblioteche, noi siamo naturalmente portati all’indietro nel tempo, e quindi anche alla nostra esperienza diretta. Davanti al video che mostrava Carter parlare del disagio della gente per la crisi economica, io, Glauco, ho avuto un flash: mi è venuto in mente quando, per risparmiare la benzina, il governo in Italia aveva imposto il razionamento nell’uso delle automobili. Io lavoravo al Corriere della Sera come correttore di bozze negli Anni ’70, e per andare in via Solferino da casa mia la domenica sera, quando la circolazione in città era consentita solo per motivi di lavoro, dovevo avere con me la dichiarazione del giornale e il tragitto che dovevo fare. Jimmy me lo ha ricordato.

Georgiano doc, Carter era un frequentatore del Mary Mac’s, storica Tea Room che una umile donna intraprendente, Mary MacKenzie, aprì nel 1945. Si trova vicino a Peachtree Street sulla Ponce de Leon Avenue e può ospitare compagnie fino a 200 persone. Oggi è uno dei dieci ristoranti più celebri della città e mantiene il nome di Tea Room che era obbligato, nel 1945, per un donna che voleva aprire un locale: era sconveniente che una signora lo chiamasse “ristorante”. Da allora è restato quello, anche se la proprietà è cambiata nel tempo. Costante, invece, è il menù, rigidamente tipico della cucina del sud: barbecue e stufato di bue, pomodori verdi fritti e pesche locali (Georgia Peach Cobbles). Ci siamo attenuti anche noi alla tradizione, come avranno fatto i clienti famosi passati di qui, da Hillary Clinton al Dalai Lama, da James Brown a Beyonce.

Atlanta si era auto nominata la “capitale del nuovo Sud”, la regione meridionale del Paese emersa dalle distruzioni della Guerra Civile, ma non ha nulla del flavour coloniale delle città che ci siamo appena lasciate alle spalle, Savannah e Charleston. Capitale della Georgia, era stata rasa al suolo e incendiata dalle truppe nordiste nell’anno finale del conflitto, nel novembre del 1864. Quando il generale Sherman vi entrò, trovò già tutti i palazzi pubblici abbattuti dai soldati confederati in fuga e completò l’opera, non prima d’aver ordinato ai residenti la completa evacuazione.

La città era stata fondata pochi anni prima, nel 1836, su uno snodo cruciale della Atlantic Railway, la ferrovia cui deve il suo nome, ma è diventata un municipio registrato nel 1847 e capitale nel 1868. Non ha quindi radici antiche, né architettoniche né culturali, e la devastazione bellica le ha permesso una ricostruzione pressoché totale, che ha avuto grande successo.

Tutti i settori industriali sono presenti, Coca Cola, Delta e CNN in testa, e la sua università tecnologica, Georgia Tech, è chiamata la MIT del sud. Giace su un territorio ondulato e collinare, ed è la più verde delle metropoli americane. La composizione sociale e razziale si è trasformata negli ultimi 70 anni: i bianchi erano il 61,7% nel 1960, ma con la loro migrazione successiva verso i sobborghi hanno ceduto ai neri la maggioranza, e nel 1973 c’è stato il primo sindaco nero, Maynard Jackson. Dal 67%  che erano nel 1990, però, gli afro-americani sono scesi al 54% nel 2010, perché anche i neri di ceto medio e medio alto hanno preferito l’hinterland. Il risultato sono i numeri del Censo del 2020: i neri sono appena sopra la metà (51%), contro il 41% dei bianchi, il 6% di ispanici e il 4% di asiatici, con un 20% tra tutte le etnie che vive sotto la linea della povertà, e con il 12,8% della popolazione che si identifica come LGBT, terza dopo San Francisco e Seattle.

Atlanta ha 500 mila abitanti ma come area metropolitana è la decima in America per PIL, prodotto interno loro. Realtà in pieno sviluppo, ha ospitato le Olimpiadi nel 1996 e nel 2026 sarà una delle sedi del prossimo campionato mondiale di calcio. Nel suo passato ha vissuto la gloria cinematografica di “Via col vento”, nel 1939, e la contemporanea vergogna della attrice protagonista, la nera Olivia de Havilland che ha vinto l’Oscar, ma che non aveva potuto partecipare al gala per la prima visione del film ad Atlanta, a causa della segregazione.

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2023-08-23T09:43:03+02:00
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