16. 29 agosto 2023 – Oklahoma City
Qui non è Nuova York – Verso sud con Maria Teresa Cometto e Glauco Maggi
Oggi Tulsa-Oklahoma City, e la rotta d’obbligo è lungo la Route 66. Mancano tre anni al centenario della inaugurazione della più celebre strada d’America, che unendo Chicago a Los Angeles fu centrale nel suggellare l’incontro dell’industria automobilistica in ascesa irresistibile con la corsa alla creazione di una rete autostradale capillare per il trasporto su gomma.
E noi abbiamo scelto un modo strano per celebrarla: abbiamo scoperto di avere una gomma un po’ sgonfia appena partiti da Tulsa e ci siamo fermati a Sapulpa, all’officina Turbo Tires LLC, la prima incontrata. Il gommista ispanico è stato cortese e professionale. Prima ha messo l’aria riportando la pressione al livello giusto, ma poi ha chiesto: “Avete tempo?”. Perché, c’è qualcosa di grave?, abbiamo chiesto tradendo il nostro livello di autisti amatoriali. Ha annuito, e noi abbiamo detto ok, faccia il suo dovere. Come portare un bambino con la febbre al pronto soccorso, e pendere dalle labbra della dottoressa.
Il signore della Turbo Tires è stato bravissimo, veloce e onesto ($10 per tutto): ha smontato la ruota, tolto la gomma dal cerchione, cercato-trovato-tolto due pietruzze che s’erano infilate nel copertone, spalmato la colla nella zona “ferita”, passato un rullo per farla “assorbire” dalla gomma, cauterizzato l’area con una fiamma ossidrica, applicato un cerottone rotondo sul punto “guarito”, ripassato il rullo, e rimesso la gomma sul cerchione. Sarà stato il lavoro di un minuto, forse due. Perdonatemi la cronaca dettagliata dell’intervento, ma è anche il modo per esprimere il sollievo di aver risolto brillantemente una rogna che poteva costarci tanto tempo, e forse qualcosa di più, se non ce ne fossimo accorti.
Poi, la marcia lungo la 66 è stata un viaggio nel tempo. I primi chilometri si fanno da soli o quasi, perché la gente normale va sulla turnpike (autostrada a pedaggio) che corre a fianco, ma così si perde stazioni di benzina abbandonate, depositi di auto arrugginite, case sparse disabitate. Sono tutti residui degli anni di gloria passata, quando le moto alla “Easy Rider” erano il mezzo cool per chi sognava la California. Ma non dura a lungo: il percorso diventa fluido, il nastro d’asfalto, pur sempre a due corsie, è stato rinnovato per bene più volte, e attorno lo scenario è quello di una campagna usuale e rustica, con mucche e cavalli in lontananza. L’ultimo tratto, poi, è il ritorno ad una viabilità modernissima, veloce, autostradale.
Il sogno della Route 66 è finito.
A Oklahoma City, capitale dello Stato, ci attende un’emozione, greve, di altro segno. Noi due eravamo a Battery Park mentre cadevano le Torri Gemelle, era il 2001. L’eccidio più grave per mano terroristica di sempre fece 3 mila vittime e noi fummo testimoni oculari. Un anno prima, nel 2000, qui ad Oklahoma City veniva inaugurato il monumento per ricordare la strage delle 168 persone che lavoravano nel palazzo federale Alfred P. Murrah a downtown, crollato per l’attacco di un diverso terrorismo, non meno malvagio, cinque anni prima, nel 1995: quello operato da due estremisti anti-governo e suprematisti bianchi, Timothy McVeigh e Terry Nichols.
Il memoriale è davvero toccante. Di fronte ad uno specchio d’acqua rettangolare che fluisce bassa e costante, lungo una cinquantina di metri, ci sono le file delle sedie in ferro e vetro, una per ogni vittima, con suo il nome. C’è una fila diversa, però, con una decina di seggioline come le altre, ma più piccine. “Sì, purtroppo sono finiti sotto le macerie anche dei bambini”, ci spiega il ranger del memoriale, e ha una sincera emozione sul volto. Non ci si fa il callo al dolore, anche tanti anni dopo, se per lavoro si deve raccontare la tragedia a chi viene qui, per portare omaggio alla memoria delle vittime. “L’acqua trasmette un senso di calma, di pace, di guarigione interiore”, ci dice il ranger. E noi lo sappiamo bene che è così. Ogni anno, se siamo a New York, l’11 settembre andiamo a Ground Zero, leggiamo i nomi e guardiamo i fiori sul bordo delle fontane d’acqua perenne. La prossima volta che ci andremo, penseremo anche ai morti di Oklahoma City.
Seconda tappa in una università americana per capire se, e come, l’italiano sia apprezzato dagli studenti. Alla University of Oklahoma ci siamo arrivati spinti dalla notizia, apparsa sul Wall Street Journal qualche settimana fa, secondo cui questa università, che è statale, ha investito 14,3 milioni di dollari per comprare e rinnovare un monastero ad Arezzo e tenerci i programmi di studio all’estero. Il giornale si chiedeva se non fosse meglio, per un ente pubblico, tenere più basse le rette invece di spendere una somma simile in una iniziativa non indispensabile. Abbiamo girato la stessa domanda ad Irene Bulla, una dei sei docenti del dipartimento di Italiano dell’università. Il commento polemico del quotidiano finanziario non ha sollevato scalpore nel campus, ci ha detto, ma ha aggiunto che la finalità dell’acquisto è positiva: “Sono stata ad Arezzo con un gruppo di studenti premiati per i loro risultati l’estate scorsa, e devo dire che sono stati conquistati. Come strumento di pubblicità per reclutare le matricole, l’Italia è cool, attrae”.
In Oklahoma non esiste un retroterra costituito dalla immigrazione italiana, che è del tutto assente. “Quindi, per catturare l’interesse degli studenti locali possiamo solo fare leva sul fascino del Bel Paese e della italianità come valore culturale. Il monastero antico, con le celle ristrutturate per ospitare ragazzi e ragazze che magari non sono mai usciti dall’Oklahoma, ha un potere enorme”, dice Irene. Che poi aggiunge le altre iniziative promosse da lei e dai suoi colleghi, qui a Norman (è la città alle porte della capitale che è sede della università). “Facciamo il karaoke in un bar con le canzoni italiane che piacciono molto”, racconta ridendo. “Vengono anche in 40-50, e cantano i brani che abbiamo insegnato in aula. ‘Una carezza in un pugno’ di Celentano è una hit!”.
L’italiano, ammette Irene, “ha purtroppo una concorrenza durissima nel giapponese, che ha un maggiore successo per la cultura pop e gli anime”. Comunque, diverse decine di studenti optano per l’italiano come materia nei corsi di laurea in cui è obbligatoria una lingua straniera, e in una ventina scelgono di portare la lingua di Dante come la minore delle due materie in cui laurearsi. Si contano sulle dita di una mano, invece, i casi di chi sceglie l’italiano come materia per la tesi.
Gli iscritti alla Oklahoma University sono quasi 30 mila e la retta è circa 36 mila dollari (compreso vitto e alloggio) per i residenti nello Stato e 53 mila per chi viene da fuori. Ma “fuori”, qui, vuol dire Texas, non di sicuro Italia. Per risparmiare, molti ragazzi restano a casa con la famiglia e fanno due-quattro ore di pendolarismo al giorno.
Come ci è finita, nel cuore dell’America, Irene? Professoressa laureata a Roma in Lettere italiane, con un triennio a Dublino e il dottorato alla Columbia di New York, ha spedito il curriculum ovunque e la ruota del destino si è fermata ad Oklahoma City. È qui da quattro anni. Dove la porteranno, in futuro, tutte queste esperienze? Lontano, ma non sa dove.
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