50. 2 ottobre 2023 – Charlottesville
Qui non è Nuova York – Verso sud con Maria Teresa Cometto e Glauco Maggi
“Lo sapete che la famosa frase nella Dichiarazione di Indipendenza ‘Tutti gli uomini sono creati uguali’ l’ha suggerita un italiano a Thomas Jefferson?”. Ce lo chiede Eduardo Montes-Bradley mentre insieme a lui e a sua moglie Soledad stavamo cenando ieri sera, ospiti a casa sua, in una bucolica area a pochi chilometri dal centro di Charlottesville.
No, non lo sapevamo, come pochi italiani e anche americani sanno. “È stato il medico e filosofo toscano Filippo Mazzei, amico e vicino di casa di Jefferson”, continua Eduardo. E cita il presidente John F. Kennedy che nel suo libro ‘A Nation of Immigrants’ ha riconosciuto il contributo dell’italiano alla rivoluzione americana. “Quella frase appare scritta a mano in italiano da Mazzei, diversi anni prima della stesura della Dichiarazione di Indipendenza – conferma JFK -. Mazzei e Jefferson si scambiavano spesso idee sulla vera libertà. Nessuno può prendersi il merito completo degli ideali della democrazia americana.”
Poi Eduardo ci racconta che Mazzei, arrivato in Virginia nel 1773, aveva creato una propria fattoria poco distante da Monticello, la dimora palladiana di Jefferson, e vi aveva importato le viti dall’Italia avviando la prima produzione commerciale di vino in America. “Adesso su quella terra ci sono i vigneti Jefferson Vineyards e potete visitarli”, aggiunge Eduardo.
Eduardo è un caro amico e i suoi consigli sono preziosi. Originario dell’Argentina e con un bisnonno italiano, con la sua famiglia vive qui a Charlottesville da 15 anni. È un regista autore di famosi documentari come “Evita”, “Rita Dove: una poetessa americana”, “Black Fiddlers” (violinisti neri) e “Daniel Chester French: scultore americano”. È grazie a quest’ultima opera che ci siamo conosciuti. La curatrice dell’ala americana del Metropolitan Museum di New York, Thayer Tolles, nel suo discorso un anno fa alla presentazione del libro di Maria Teresa “Emma e l’Angelo di Central Park” aveva citato gli artisti che alla fine dell’Ottocento avevano fatto il percorso inverso rispetto a Emma Stebbins: lei e le sue amiche scultrici americane erano andate in Italia a studiare e lavorare, mentre diversi scultori italiani erano venuti in America a cercare nuove opportunità. Quindi Tolles aveva suggerito a Maria Teresa di contattare Eduardo, che stava progettando un documentario sui fratelli Piccirilli, gli scultori italiani più importanti fra quelli trapiantati negli Usa. Detto fatto.
Eduardo aveva scoperto i Piccirilli producendo il documentario su Daniel Chester French. “Lui ha disegnato la statua monumentale di Abramo Lincoln nel Lincoln Memorial di Washington, D.C. – spiega Eduardo -. Ma chi ha davvero creato quell’opera sono stati i fratelli Piccirilli nel loro studio nel Bronx. Loro hanno trasformato il modellino disegnato da Chester French nel famoso monumento: dal loro laboratorio sono partiti 11 camion con i 28 blocchi di marmo scolpito che loro hanno poi assemblato nella capitale. Io voglio rendere giustizia ai Piccirilli, chiamati finora solo ‘tagliapietre’ o ‘scalpellini’ o ‘operai’ nei libri di testo. Posso mostrare, grazie alla approfondita ricerca che sto facendo, che invece erano veri scultori, veri artisti. Erano famosi e molto quotati. Hanno realizzato oltre 500 statue e monumenti in America. Questo Paese ha avuto un suo ‘Rinascimento’ grazie a loro”. Resta il mistero di come i Piccirilli siano scomparsi dalla storia della scultura americana e Edoardo è deciso a scoprirlo. Siamo curiosi anche noi e facciamo il tifo per il successo della sua impresa.
Alla fine della deliziosa cena preparata da Soledad, laureata alla scuola culinaria Le Cordon Bleu e insegnante di corsi di cucina, Eduardo ci organizza la visita a Highland, la casa di James Monroe, uno dei padri fondatori degli Stati Uniti e quinto presidente USA. Lui conosce bene il direttore esecutivo Sara Bon-Harper con la quale ha lavorato per produrre un documentario su Monroe in quella casa.
Prima di andare stamattina a Highland, lì vicino ci fermiamo ai vigneti che furono di Mazzei per omaggiare il nostro connazionale. Su un cartello c’è una frase di Jefferson: “Il buon vino è una necessità della vita per me”. Il padre della patria aveva imparato bene la filosofia dell’amico italiano.
Poi la visita alla casa di Monroe comincia con un altro omaggio a un italiano: proprio uno dei fratelli Piccirilli, Attilio, ai suoi tempi il più quotato come artista in proprio, è l’autore di una statua di Monroe in marmo di Carrara, a grandezza più grande del naturale, che campeggia nei giardini di Highland.
Ce la mostra Bon-Harper, che è responsabile di Highland dal 2012 e parla fluentemente italiano. Archeologa con un dottorato in Antropologia alla University of North Carolina a Chapel Hill, ha studiato in Umbria e ha lavorato a Pompei e in Toscana, dove ha applicato una sua tecnica di analisi dei reperti trovati in zone arate. “In terreni di questo tipo, gli oggetti si trovano su livelli diversi da quelli originali e quindi è necessario uno studio speciale”, spiega. A Highland invece ha utilizzato fra l’altro la dendrocronologia – un sistema di datazione basato sul conteggio degli anelli di accrescimento annuale degli alberi – per ricostruire la vera storia della casa di Monroe.
“Abbiamo scoperto che la vera casa era stata distrutta da un incendio e trovato i suoi resti – spiega Bon-Harper -. Monroe l’aveva fatta costruire da due falegnami in schiavitù”. Notiamo che usa l’aggettivo “enslaved” invece del sostantivo “slave” e chiediamo perché. “Perché definire una persona ‘schiavo’ significa ridurre la sua identità a quella condizione, il che non è giusto”, risponde.
L’altra innovazione portata da Bon-Harper a Highland è stata sviluppare una collaborazione con i discendenti degli schiavi di Monroe in quella casa: erano almeno 53, impiegati nei campi o nelle faccende domestiche.
“Una dozzina di discendenti forma un consiglio che ci guida nella scelta dei contenuti e della ricerca”, spiega Bon-Harper. “È un gruppo molto diverso socialmente e politicamente. Per esempio ci sono un ingegnere, un detective della polizia, due pensionati, un dipendente del governo federale e uno dell’università”. Il consiglio ha dato pareri sulla nuova mostra che aprirà fra poco e che collegherà la vita nella casa di Monroe ai prodotti – come la lana e i tessuti – creati dagli schiavi, e alla economia della zona. “Ci sarà anche una parte della mostra che vuole ispirare la gente a cercare il filo della storia a cui ognuno è legato, a pensare al contesto storico che influenza la propria vita e a come anche le proprie azioni hanno un impatto sulla storia”, aggiunge Bon-Harper.
Questo è un museo, dunque, molto diverso da quelli visitati finora. Qui la storia del presidente e quella dei suoi schiavi sono esplorate e raccontate insieme, strettamente interconnesse l’una all’altra.
Eduardo ci aspetta alla Rotunda, il cuore architettonico e accademico della Università della Virginia disegnato da Thomas Jefferson prendendo come modello il Pantheon di Roma. Lui conosce bene il “villaggio accademico” – come qui chiamano il campus – perché lui e Soledad hanno avuto qui un ufficio per anni mentre producevano documentari per l’università. Conosce tutti e ci fa da guida storica e artistica.
“I capitelli di queste colonne sono di marmo di Carrara e per costruire il ‘Villaggio’ Jefferson fece anche arrivare abili artigiani dall’Europa, compresi esperti scalpellini come Giacomo e Michele Raggi”, racconta Eduardo. “Cinque anni fa gli stessi capitelli sono stati restaurati a Carrara”.
Poi ci mostra la lunga fila di camerette occupate dagli studenti migliori. E ci porta al Memoriale dedicato agli schiavi che hanno costruito il Villaggio Accademico, un progetto a cui lui ha partecipato. È un monumento circolare aperto, con sulle pareti i nomi degli schiavi riconosciuti o, a volte, solo l’indicazione “madre”, “padre”, “cuoca”, “sarta”… Per terra scorre un ruscello su un letto di pietra che porta le date della storia dell’università con evidenziati episodi come questo: “1856. Una ragazza di 11 anni in condizioni di schiavitù è picchiata e in fin di vita da uno studente, che rivendica il diritto a disciplinare qualsiasi schiavo e non soffre alcuna conseguenza”.
Nel palazzo della facoltà di Musica, Eduardo ci fa ammirare le pareti all’ingresso tutte decorate con murales realizzati dal suo amico Lincoln Perry, visiting artist dell’Università della Virginia nel 1985 e 2001. “È una allegoria della vita degli studenti e vi figurano diversi veri professori dell’università – racconta Eduardo -. Ma c’è una scena che ha sollevato polemiche: vi si vede un professore che porge un reggiseno a una studentessa seminuda. C’era chi voleva cancellare tutto. Io mi sono opposto e per fortuna i murales sono rimasti”. Ma la “cancel culture” ha fatto altre vittime in città.
“Una febbre ‘monumentale’ ha invaso l’America, iniziando da Charlottesville e portando alla rimozione di molte iconiche opere d’arte pubblica – ricorda Eduardo -. Tra quelle per le quali sono più dispiaciuto, c’è la statua di Lewis e Clark (i due incaricati da Jefferson di esplorare i nuovi territori nel west), scolpita da Charles Keck, che si era formato sotto il mio amato Attilio Piccirilli. Il ‘peccato’ della statua era di raffigurare la loro guida indiana, Sacajawea, accovacciata: secondo i critici era sminuita, come fosse impaurita, in realtà stava seguendo una pista, il mestiere della guida”.
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