46. 28 settembre 2023 – Asheville
Qui non è Nuova York – Verso sud con Maria Teresa Cometto e Glauco Maggi
Sapevamo da un articolo del Wall Street Journal che la Biltmore House era la residenza privata più grande mai costruita in America, e quindi l’abbiamo inserita nel nostro itinerario. Essendo un record, aveva le carte in regola per esserci, se non altro come curiosità immobiliare: una casa con 250 camere non si trova facilmente, per di più in Nord Carolina.
Siamo andati, ed è stata una scoperta, almeno per noi che sappiamo ancora stupirci di questo Paese. Innanzitutto abbiamo capito come una residenza di famiglia potesse essere costruita in capo al mondo. Basta chiamarsi Vanderbilt, e volere una villa di campagna per passarci qualche mese ogni tanto, con moglie e figli, “per scappare dalla vita frenetica della città” (New York). È quanto disse George Washington Vanderbilt II quando la inaugurò nel Natale del 1895, ospitando parenti e amici.
Nipote di Cornelius Vanderbilt, il capostipite che costruì un impero di ferrovie venendo dal niente, a 25 anni George era in vacanza con sua madre da queste parti, nel 1888, e si innamorò tanto delle colline attorno a Asheville da dare al suo agente il mandato di comprarne per 125mila acri (pari a 505 chilometri quadrati, quasi la metà del vastissimo comune di Roma, che ne conta 1287).
L’idea fu subito di farne una villa per sé, e per gli ospiti. La socialità era un valore. Doveva essere qualcosa al massimo livello estetico, inserita come un gioiello nel verde delle Blue Ridge Mountains. Per avere un gioiello di casa, George assunse l’architetto che aveva fatto la facciata maestosa del Metropolitan Museum of Art, Richard Morris Hunt. E per inserirla nel contesto collinare, si rivolse a chi aveva creato Central Park, Frederick Law Olmsted, l’architetto del paesaggio che aveva fatto il contadino e poi il giornalista. I due, molto più anziani di George, lavorarono in perfetta armonia tra di loro, e il committente fu così entusiasta del risultato di sei anni di lavoro da piazzare due loro quadri ad altezza d’uomo, firmati dal celebre pittore John Singer Sargent, in un salone della villa.
Li abbiamo visti (danno una ottima audio guida, chiara anche se solo in inglese) nel giro che consigliamo di fare a chi visita le Caroline: Biltmore è un must, per più di un motivo.
C’è la maestosità dell’edificio, che appare, come un castello francese con tanto di gargoyles, dopo che si sono impiegati una ventina di minuti in auto ad attraversare il bosco disegnato da Olmsted. Volutamente, sull’esempio di Central Park, dove l’architetto ha inventato uno scenario tutto curve, tutto finto, rocce e ponticelli compresi, qui a Biltmore, disponendo di un territorio sconfinato, Olmsted ha creato da un terreno brullo una foresta fitta. Ha scelto una varietà di piante che quasi non fa passare il sole e ipnotizza l’attenzione di chi si sta dirigendo al “castello”. Con l’idea, appunto, di lasciare il visitatore a bocca aperta all’ultima curva, quando alla fine si rivede il cielo e, sotto, una Versailles a stelle e strisce. Olmsted, lavorando per Biltmore, aveva convinto George ad assumere uno specialista di scienze forestali, insieme al quale dar vita a un vivaio di milioni alberi e cespugli. In parallelo con la costruzione della magione di Hunt, infatti, Olmsted fece arrivare milioni di alberi e cespugli creando un vivaio. Fu il primo esempio di gestione e manutenzione di una foresta negli Stati Uniti. E nacque la “forestry” come scienza.
Quando si entra, per la visita di un’ora e mezza che va prenotata (e prepagata, minimo 85 dollari) si respira un’atmosfera particolare. Siamo abituati ai castelli e ai palazzi storici italiani: hanno secoli di storia e non ci si stupisce dello sfarzo, della opulenza figlia del potere, di principi o duchi. Quello era il mondo.
L’effetto provato nella sala da pranzo di Biltmore, con un tavolo per due dozzine di commensali, addobbi dorati e damascati alle pareti, e una volta da basilica, è diverso. È quello dell’erede di un imprenditore dell’Ottocento, e bisogna fare una trasposizione mentale storica, “societaria”. Cioè capire se congratularsi, o disprezzare, l’ostentata ricchezza della Gilded Age americana. Come va giudicato il fatto che milioni di persone vengano ad ammirare una casa di campagna privata di uno che, ai suoi tempi, non era l’1%, ma lo 0,00001 della società?
Noi siamo per l’interpretazione positiva: è mecenatismo, quello di George Vanderbilt. Girava il mondo (ha fatto il viaggio di nozze in Italia) per collezionare opere d’arte, di cui era appassionato: abbiamo visto due Renoir e due Monet, oltre al citato Sargent, e sul piazzale all’ingresso c’è una scultura marmorea di una baccante con un putto, a firma Giannoni Sergio Ulderigo di Pietrasanta, Italy.
Un episodio, più di tutto, testimonia della dedizione all’arte, e alla patria dei Vanderbilt: quando i giapponesi bombardarono Pearl Arbour alle Hawaii, il governo Usa chiese loro di poter mettere al sicuro, in gran segreto, le opere più preziose della National Gallery di Washington nella villa di Biltmore. Ci rimasero fino al 1944, a guerra vinta, e i Vanderbilt non vollero nulla per l’affitto.
George Vanderbilt ha pure scelto, comprato, e catalogato nella sua personale biblioteca, 23mila libri di arte, filosofia, botanica, ingegneria e altro. E ha preteso che nella villa, di quattro piani, fossero in uso le invenzioni più avanzate, dalla luce elettrica ad uno dei primi ascensori in America, perché George aveva il pallino delle nuove tecnologie.
Il mecenatismo non è un fenomeno dell’antichità, evolve nei tempi. E ha bisogno sempre della stessa cosa, il denaro, tanto denaro. Non che tutti i ricchissimi siano mecenati, ma per esserlo si deve aver accumulato la ricchezza, smodata, che serve. E tra questi crescono benefattori del progresso artistico, culturale, scientifico, medico e tecnologico. Che noi posteri ammiriamo.
La magione con 250 camere è solo il cuore di questo impero civile privato, che ancora adesso è in mano ai discendenti della famiglia Vanderbilt, che lo gestiscono con lo spirito giusto: ossia preservare il messaggio di Olmsted, condiviso da George, di condividere la “bellezza” con tutti, di fare un parco per la gente, e per le generazioni future.
Usciti dalla villa, la giornata a Biltmore offre diverse passeggiate in una serie di giardini: l’Italian Garden, dove si giocava a croquet; lo Shrub Garden, che vanta 500 varietà di cespugli e piante tra cui si distinguono l’ “albero della pioggia d’oro” e la “betulla di fiume”; il Rose Garden, con le rose che sono un retaggio della famiglia, essendo della stessa specie del 1895; il Conservatory, disegnato da Hunt, un’oasi tropicale con orchidee esotiche, palme e felci; l’Azalea Garden, con la selezione di orchidee native raccolte dall’esperto orticultore di Biltmore Chaunceey Beadle.
Biltmore organizza anche speciali mostre, che cambiano ogni anno, nel Deer Park. Quella attuale, aperta nel marzo di quest’anno e che chiude a ottobre, ci è particolarmente piaciuta. Il tema è il Rinascimento Italiano, e i creatori sono gli esperti in arte & show digitale della Grande Experiences. Li conoscevamo avendo visto, a Manhattan, una loro manifestazione digitale su Van Gogh che ebbe molto successo.
Non ci hanno deluso, anzi. Lo spettacolo che presentano qui è una lezione popolare di storia dell’arte, in questo caso il Rinascimento Italiano da Giotto al tardo Rinascimento di Tiziano. Il pubblico prende posto sulle panchine disposte nel centro della grande sala, mentre pannelli che sembrano schermi cinematografici, sulle pareti tutto attorno e anche sul pavimento, alternano le opere d’arte iconiche dei nomi eccelsi della nostra storia artistica, come Michelangelo Tiziano Tintoretto, a “cartoline” iconiche delle piazze e chiese di Firenze, Roma, Venezia. La colonna sonora si sposa con le visioni in technicolor e in movimento, e sono tutte arie celebri ed evocative, da Verdi a Rossini a Puccini eccetera.
Difficile fare uno spot migliore della irresistibilità del nostro Paese in quanto centro di cultura, di arte e di musica. E prima di entrare in questo teatro per i 45 minuti di show, chi è motivato ad imparare ha a disposizione, in un enorme salone, una trentina di pannelli che spiegano in modo semplice e fruibile la grandezza del nostro Rinascimento. Affermano anche che è esistito un Rinascimento americano, inteso come la scoperta del classicismo all’europea da parte degli artisti americani, e che Vanderbilt è un Medici redivivo.
Noi abbiamo chiamato il lavoro della Grande Experiences, filmati e testi, un “bignamino” di storia dell’arte e della cultura italiana, ma non in tono offensivo o sminuente. I libriccini della Bignami, per chi studiava 20 o 30 anni prima di Internet, avevano una funzione di valido riassunto in una fase di scuola che oggi chiamiamo nozionistica. In realtà, è sempre stato meglio sapere le cose che non saperle.
E poi, a ripensarci, è ingenerosa questa definizione nel caso del lavoro della Grande Experiences. Infatti abbiamo appreso anche qualcosa di interessante che non conoscevamo dai nostri studi scolastici (con e senza Bignami). Che ci sono state anche artiste donne, nel Rinascimento, e non solo i nomi ipercelebrati maschili, già citati, che riempivano i nostri libri di storia dell’arte. Per esempio, Plautilla Nelli e Artemisia Gentileschi. Un tributo dovuto. Thanks a lot!
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