36. 18 settembre 2023 – Dallas

Qui non è Nuova York – Verso sud con Maria Teresa Cometto e Glauco Maggi

Facciamo la prima colazione – cappuccino e torta ai mirtilli – al Race Street Coffee di Fort Worth, in attesa del nostro incontro alle 11 con Opal Lee, che vive poco lontano da lì. Siamo seduti al bancone fra Lorena – mamma spagnola con un bimbo di tre anni – e un signore che scrive a mano su un quaderno (un romanzo? poesie?). Ai tavolini ci sono ragazzi – di tutte le razze – che lavorano sul laptop o studiano su libri. Entra anche un giovane in giacca camicia e cravatta. Siamo evidentemente in un quartiere di periferia “gentrificato”, occupato da giovani professionisti e creativi e si respira un’atmosfera rilassata. Fuori, c’è un grande murales con la bandiera USA, la scritta “Una nazione, sotto Dio, indivisibile” e l’iconica immagine di Rosie “the Riveter” che dice “We Can Do It”, possiamo farcela.

Una che ce l’ha fatta davvero e che, a 96 anni, non si è ancora fermata nell’impegno di migliorare la vita degli altri, è Opal Lee, “la nonna di Juneteenth”. La incontriamo nella sua casa, insieme a sua nipote Dione Sims, nel quartiere storicamente nero United Riverside, a pochi minuti di auto da quello dove abbiamo fatto colazione ma lontano anni luce per composizione sociale.

Dietro la casa di Ms. Opal – lo scopriremo presto – c’è una “food bank” da lei promossa, dove ogni giorno 500 persone fanno la fila per ricevere gratis cibo e altri generi di prima necessità.

Ma andiamo per ordine. Abbiamo chiesto di incontrare Ms. Opal perché è stata la sua forza e determinazione a ottenere che Juneteenth diventasse, nel 2021, una festa nazionale. È la celebrazione della vera fine della schiavitù negli Stati uniti, avvenuta il 19 giugno 1865 quando i soldati dell’Unione raggiunsero la cittadina più a Sud negli ex Stati ribelli Confederati, Galveston nel Texas e misero in pratica il “Proclama di emancipazione” di Abramo Lincoln, che aveva decretato la liberazione degli schiavi già dal primo gennaio 1863.

Fino a due anni fa, Juneteenth era celebrata perlopiù solo nelle comunità Afro-americane. Ma Ms. Opal è sempre stata convinta dell’importanza di rendere tutto il Paese consapevole dell’importanza di quella data. E dopo tanti anni di tentativi non riusciti, a 89 anni si è lanciata in una impresa straordinaria.

“Ci erano voluti due anni e mezzo perché il decreto di Lincoln fosse rispettato: allora ho deciso di camminare ogni giorno per due miglia e mezzo (4 km) da casa mia fino alla capitale, Washington, DC per chiedere al parlamento e al presidente di dichiarare Juneteenth festa nazionale”, ci racconta Ms. Opal. Ma non c’è traccia di rabbia o aggressività nella sua voce. C’è invece molta energia e passione e amore in questa piccola donna (un metro e mezzo di altezza), curatissima nell’aspetto: pantaloni neri, maglia bianca e giacca di pizzo con colori pastello, lunghe unghie smaltate di rosa, una cascata di riccioli grigi sulla fronte.

Ci ha accolti abbracciandoci e salutandoci come “young people” (giovanotti). Sorride e ride spesso mentre ci racconta la sua vita (sua bisnonna paterna era nata schiava) e la sua lunga marcia: 2.317 km!

“Sono partita nel settembre 2016 e arrivata a Washington il 7 gennaio 2017 – racconta -. Ovviamente non l’ho fatta tutta a piedi: molta gente mi ha aiutato dandomi passaggi in auto o mettendomi su un bus o su un aereo. Purtroppo il presidente Barack Obama non era nella capitale quando sono arrivata”. Le chiediamo perché, secondo lei, nei suoi otto anni alla Casa Bianca Obama non ha dichiarato lui Juneteenth festa nazionale. “Non lo so, volevo chiederglielo ma non ho avuto l’occasione”, risponde. È stato invece l’attuale presidente Joe Biden a farlo, nel 2021, dopo che la campagna di Ms. Opal ha raggiunto 1 milione e 600 mila firme a favore.

Per lei il 19 giugno ha anche uno speciale significato personale. “I miei genitori erano grandi lavoratori ed erano riusciti a comprare una casa qui a Fort Worth in un bel quartiere – ricorda Ms. Opal-. Il 19 giugno 1939, quattro giorni dopo esserci trasferiti lì, una folla arrabbiata di vicini si è presentata davanti a casa nostra. La polizia dice che non può controllare quella gente. Mio padre imbraccia il fucile ma gli dicono che se lo usa permetteranno alla folla di assalirci. È finita che li hanno comunque lasciati scatenarsi: abbiamo dovuto scappare e hanno rubato tutto e poi bruciato la casa. Io avevo 12 anni. Lo spavento è stato enorme”. La nipote Dione precisa: “Era un quartiere bianco e ai vicini non piaceva l’arrivo di una famiglia nera”.

Ma la famiglia di Opal era tosta. Ha comprato un’altra casa a cinque isolati di distanza e ci ha allevato i tre figli. “Io mi sono sposata a 16 anni, contro il parere di mia madre. – continua Ms. Opal -. Dopo quattro anni e quattro figli ho capito che dovevo mantenere anche mio marito. Allora ho tagliato le mie perdite, lasciato il marito, tornata da mia madre, ripreso a studiare al college mentre mia madre curava i miei figli, mi sono laureata e ho iniziato a insegnare, facendo anche un altro lavoro di sera per mantenere la famiglia. Negli ultimi anni come insegnante, mi occupavo del benessere degli studenti, della loro situazione a casa. Così quando sono andata in pensione ho continuato ad aiutare la gente: è quello che faccio con la food bank”.

E poi Ms. Opal ci spiega la sua filosofia: “Dico ai giovani che ognuno può darsi da fare per cambiare la vita di un altro uomo. Che bisogna insegnare l’amore non l’odio. Niente pistole, sì cervelli acuti. Tocca a noi rendere grande questo Paese. Ci sono diseguaglianze ma insieme possiamo risolvere i nostri problemi. Le nostre differenze non devono dividerci. Siamo liberi solo se tutti siamo liberi. Possiamo raggiungere così tanti obbiettivi insieme e questo è importante da capire soprattutto ora che la nazione è tanto divisa”.

Le chiediamo se si ispira a Martin Luther King Jr. “No, la mia ispirazione sono i miei nonni, che lavoravano la loro terra in Louisiana, da soli perché nessuno voleva lavorare per loro, e sono riusciti a tirar su quattro figli”, risponde con orgoglio, mentre ci mostra l’albero genealogico della sua famiglia e le stanze della sua casa,  piena di premi e riconoscimenti e destinata a diventare un museo. “Non mi porto certo dietro tutta questa roba!”, dice ridendo. Su un muro è appeso un cartello con le “Regole della famiglia Lee”: “Sogna in grande. Ama la tua famiglia. Ridere insieme. Divertirsi. Condividere. Ascoltarsi l’un l’altro. Dire per favore e Grazie. Provare nuove cose. Aiutarsi l’un l’altro. Dire sempre la verità. Essere gentili. Perdonare e dimenticare. Fare del proprio meglio. Dare un sacco di abbracci e baci. Rispettarsi l’un l’altro”.

Un piccolo museo su Juneteenth Ms. Opal l’aveva già creato nel 2005 nel suo quartiere, su una terra di sua proprietà (grande lavoratrice, ha sempre investito i suoi risparmi in terra e immobili). Ma è andato distrutto in un incendio e ora ha in progetto la creazione di un grande museo che serva anche al rilancio del quartiere. “Oltre alle gallerie sulla storia del Juneteenth, ci saranno un business incubator, bar, ristoranti, un teatro, spazi per la comunità”, spiega Dione. Dovrebbe essere pronto nel 2025.

“C’è sempre lavoro da fare! Non c’è solo Juneteenth”, esclama Ms. Opal e, infaticabile, dopo un’ora di intervista ci trascina per un’altra ora a visitare le sue altre iniziative. Saliamo in auto con Dione alla guida e sua nonna al comando.

Prima tappa, la food bank. Davanti c’è già una lunga fila, uomini e donne, bianchi e neri. “Viene chi è disoccupato o sotto-occupato o comunque chi non guadagna abbastanza per mantenere una grande famiglia. Respingiamo lo stereotipo secondo cui chi viene in un posto come questo è uno scansafatiche”, spiega Dione, che dal 2015 ha lasciato il suo lavoro da esperta di computer per impegnarsi a tempo pieno a fianco della nonna. Poi ci presenta un’altra donna-forza della natura: la ceo, il capo della “Community Food Bank”, Regena Taylor. “La nostra regola è dignità e rispetto per i nostri clienti e fra di noi – spiega Regena mentre ci mostra l’enorme magazzino di beni regalati da una lunga lista di aziende -. Tutti collaborano con noi da WalMart a Amazon, persino i membri della Church of Jesus Christ of Latter-day Saints (i mormoni) che in passato non vedevano di buon occhio i neri”.

Dai 40 ai 60 volontari ogni giorno preparano i pacchi di cibo per i “clienti”: “Tutti prodotti di qualità”, spiega Regena tirando fuori da un pacco una confezione di salmone. “Riceviamo e distribuiamo anche altri beni, dai disinfettanti ai pannolini e al cibo per bambini, perfino scatolame per cani e gatti. Per Thanksgiving offriamo 5 mila tacchini”. Sprizza giustamente soddisfazione e orgoglio. Ma la dobbiamo lasciare, a malincuore, perché Dione e sua nonna vogliono farci vedere un’altra loro iniziativa: la Opal’s Farm”.

È un grande orto urbano, sulle rive del fiume Trinity: fa parte di Unity Unlimited, l’organizzazione non profit gestita da Dione. Sul cartello piantato nel campo – che produce pomodori, meloni, lattuga – c’è scritto: “Insieme lavoriamo per finire l’insicurezza alimentare e per la giustizia per TUTTI i quartieri di Fort Worth”. In altre parole, non sono per quelli afro-americani. Nel campo sta lavorando un signore alto, Gregory Joel, il responsabile della farm. “Abbiamo un programma per riabilitare chi in prigione ha fatto lavori agricoli – spiega Dione -:  quando esce può continuare a lavorare qui e lo aiutiamo a prendere un diploma in agricoltura, a creare un orto anche nella propria comunità. Così diventa autosufficiente almeno per la frutta e verdura ed è meno probabile che ritorni in prigione”.

Che dire? Siamo travolti dell’entusiasmo di Ms Opal e di Dione, che ci hanno dato una micidiale iniezione di ottimismo per il futuro dell’America.

George W. Bush è il presidente che ha avuto una grande parte nella nostra vita in America. Siamo arrivati tre mesi prima del voto del novembre del 2000, quando batté Al Gore dopo i conteggi e i riconteggi dei voti in Florida. Non eravamo ferrati sulla politica americana come lo siamo ora (e ci mancherebbe non lo fossimo ora, visto il nostro lavoro), perché la decisione di venire a New York era per fare una esperienza di uno o due anni, e poi rientrare.

L’attacco delle Torri Gemelle dell’11 settembre del 2001, a due passi da casa nostra, cambiò tutto. Sfollati per forza, e non più in grado di tornare nel nostro appartamento avvolto dalle ceneri, eravamo in strada in mezzo alla folla di Battery Park, il venerdì 14 dopo l’attentato, e vedemmo l’auto del presidente che aveva appena finito lo storico discorso con il megafono prestatogli dal pompiere sulle macerie di Ground Zero.

L’11 mattina avevamo assistito al dramma in diretta, e avevamo scritto sui nostri giornali, il “Corriere della Sera” e “La Stampa”, la cronaca di quelle ore: le vittime che si buttavano, l’afflosciarsi inimmaginabile delle Torri Gemelle, una dopo l’altra, mentre ci mettevamo in salvo. Così siamo diventati newyorkesi, e così George W. Bush è diventato il nostro presidente.

Abbiamo rivissuto, nella sua Biblioteca Presidenziale e Mueo nel campus della Southern Methodist University vicino a Dallas, quei momenti che non avevamo mai scordato. Ci sono tanti filmati e servizi televisivi di allora, come è ovvio. E c’è persino un pilone di quattro o cinque metri, ritorto e arrugginito: era un pezzo di ferro delle Twin Towers che non doveva mai vedere la luce, e invece oggi è un eterno spirito della storia. Chissà se l’esperienza dell’11 settembre di Bush, presentata nei saloni più ampi, domina le emozioni degli altri visitatori – oggi piuttosto numerosi – con la stessa intensità con cui l’abbiamo provata noi.

Peraltro, il Museo merita d’essere vissuto nella sua interezza, e spettacolarità. Nell’androne a base quadrata, enorme e dal soffitto altissimo, girano, sulle quattro pareti in alto come fossero le vetrate colorate di una chiesa, filmati rotanti che esaltano le bellezze naturali del Texas. Si vede quanto George e Laura Bush amino questa terra, e questa America così “beautiful”, come recita un celebre inno.

A differenza di altre Biblioteche Presidenziali, lo spazio alla ricostruzione degli atti politici del presidente è molto ridotto. Prevalgono i messaggi dei valori che i Bush tengono più cari: la famiglia, la fede, l’amore per gli altri, e l’educazione. “Le nostre figlie, per dirlo semplicemente, sono state le risposte alle nostre preghiere”, ha scritto Laura nella sua biografia.

“Il governo può dare denaro ma non può sperare di mettere la speranza nei nostri cuori o uno scopo nelle nostre vite, solo la fede può farlo”, ha detto Bush nel marzo del 1999, in una chiesa battista a Houston, in appoggio alle iniziative a favore dei poveri promosse dalle comunità basate sulla religione. E ancora: “La fede cambia la vita, lo so, perché la fede ha cambiato la mia”.

Queste frasi ci hanno colpito, perché qualche ora prima avevamo conosciuto, e apprezzato, lo stesso impegno di carità nella vita di Opal Lee e Dione Sims.

Spulciare tra i pannelli con le sue dichiarazioni aiuta a trarre il succo della  filosofia della vita di Bush, un politico serio capace di ridere anche di sé, con un gusto per l’ironia che non gli fu mai riconosciuto dalla stampa mainstream. “Il mio passato lascia più che un accento, lascia un messaggio. Ottimistico. Che non sopporta chi finge. Fiducioso che la gente può disegnare il proprio tragitto di vita”, disse Bush il 3 agosto 2000 alla Convention Repubblicana quando ottenne la nomination. Il suo accento imperfetto da texano è sempre stata un’occasione di scherno da parte dei suoi critici, ma lui ci rideva sopra.

Quando George fece la campagna da presidente, da figlio di presidente, fu oggetto di critiche pungenti che lo dipingevano in una guerra acida con il padre. Lui lo aveva smentito già nella sua biografia, ma ha voluto ribadirlo qui: “Attraverso la mia vita l’ho rispettato, l’ho ammirato e gli sono stato grato per il suo amore”, ha scritto sul padre George H. W.

Il messaggio politico più rilevante, letto in questa stagione in cui la partigianeria si fa beffa del patriottismo che è il vero valore unificante, è quello che Bush lanciò il 13 dicembre del 2000, appena proclamato vincitore: “Non sono stato eletto per servire un partito ma per servire una nazione. Sono il presidente degli Stati Uniti e di ogni singolo americano di ogni razza e di ogni background”. Un esempio di questa impostazione non settaria è stato l’accordo con il senatore Democratico liberal Ted Kennedy sulla legge “No child left behind” (Nessun bambino deve essere lasciato indietro”, una riforma federale a favore della educazione per tutti).

Nel Museo non rinnega le sue decisioni, anche quelle più controverse come quella della guerra in Iraq. Ma le presenta nella loro problematicità in un “teatro interattivo” dove i visitatori sono invitati a decidere loro che fare dopo aver ascoltato gli esperti e i protagonisti del tempo di quelle scelte, che discutono gli argomenti con le rispettive ragioni pro e contro. E bisogna dare il proprio parere in un paio di minuti. L’idea è di far capire quanta pressione abbia un presidente che deve affrontare problemi drammatici. Provare per credere. Di certo, è una ammissione di umiltà.

Da presidente in pensione, George ha infine scoperto la vena del pittore. Soprattutto ritrattista, ma nella Biblioteca fa bella mostra pure un suo quadro con la bandiera a stelle e strisce, la dichiarazione artistica del suo patriottismo.

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2023-09-19T09:01:43+02:00
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