29. 11 settembre 2023 – Tucson
Qui non è Nuova York – Verso sud con Maria Teresa Cometto e Glauco Maggi
In Tv scorrono le immagini dell’11 settembre mentre facciamo il check-in, la sera, nel nostro motel di Tucson. Angel vede che siamo di New York, istintivamente guarda lo schermo, e ci dà un’occhiata come d’intesa. In questa giornata gli americani si dividono in due categorie, quelli che ricordano e quelli che ci soffrono ancora, quasi fosse ieri. Noi siamo tra questi, anche perché vivevamo a Battery Park e siamo stati testimoni oculari del dramma. Questo è il primo anniversario che non siamo potuti essere alle celebrazioni di New York, essendo impegnati in questo viaggio. Raccontiamo ad Angel di noi, che non eravamo più potuti rientrare a casa, poiché il nostro palazzo era così vicino alle Torri che fu danneggiato e rimase chiuso per molti mesi. Lui resta scosso e ci esterna simpatia, ma a quel punto ha anche lui la sua storia personale da raccontare, di quell’11 settembre 2001.
“Per coincidenza, il giorno dopo, il 12, era programmato il mio giuramento per entrare nei Marines”, ci dice. “Giurai, e fui poi mandato in Afghanistan e in Iraq, a Falluja. Sono rimasto in servizio fino al 2015, e ora ho fatto domanda per diventare deputy sheriff, vice sceriffo a Tucson”. Come è la situazione dell’ordine pubblico, qui in città?, chiediamo. Risponde, serio, “Beh c’è del crimine legato alle attività dei cartelli della droga dal Messico, ci sono le gang…” Ci esce la domanda istintiva “non è un mestiere pericoloso?”. Capiamo immediatamente, prima della risposta, che la domanda è idiota, e forse offensiva per un ex marine. “No”, ci rassicura, e stavolta fa un sorriso simpatico. “So che c’è pericolo a fare il vice sceriffo, ma a me piace l’idea di eliminare i bad guys, i criminali”. Marine una volta, marine per sempre, dice il motto del corpo. A questo punto non ci resta che salutare Angel con la frase che andrebbe detta, e molti lo fanno, incontrando per strada un ragazzo o una ragazza in divisa: “Thank you for your service! Grazie per il tuo servizio”.
Di prima mattina abbiamo lasciato Yuma, contenti per non essere stati lì quattro giorni prima: pensavamo che i nostri 42 gradi di ieri fossero tanti, ma facendo colazione nel ristorante dell’albergo abbiamo saputo, scambiando due chiacchiere con un cortese veterano del Vietnam, che venerdì scorso erano stati 49. “Brucia i polmoni respirare a quella temperatura, se c’è un po’ di vento”, ci dice, smontando il nostro “record”.
La tappa di oggi prevedeva due appuntamenti, entrambi quasi alla fine del lungo trasferimento di oltre 350 chilometri: uno con i cactus del deserto e l’altro con le opere di un artista di origini italiane che ha costruito il suo proprio museo sulle colline sopra Tucson.
Il Saguaro National Park è un’area di oltre 100 chilometri quadrati di un deserto collinare, il Sonora, che è il più esteso d’America e può essere considerato la capitale mondiale dei cactus. Di piante grasse ce ne sono di varie specie, e 25 vivono in questo parco, ma il Saguaro è il re del deserto: gigantesco, può raggiungere i 12 metri di altezza e vivere fino a 150 anni. Secondo una stima dei ranger, ce ne sarebbero 1,8 milioni di esemplari.
I nativi americani delle due tribù che vivevano nell’area usavano i frutti rossi e succulenti del Saguaro per estrarre sciroppi dolcissimi. Il suo fiore bianco, che sboccia tra aprile e giugno, è stato designato fiore ufficiale dello Stato dell’Arizona.
Ma il Saguaro è innanzitutto l’immagine simbolica del far west. La sagoma del cactus con le due o tre braccia laterali è ricorrente nella iconografia dei cartoni animati che si “girano” nel deserto. Su tutti, il mitico e irraggiungibile “Willy il Coyote e Beep Beep” – “Wile E. Coyote and the Road Runner” in inglese – che ha sempre qualche Saguaro sullo sfondo. Peraltro, percorrendo in auto lo Scenic Bajada Loop Drive (oggi, per il calore eccessivo, era sconsigliata dai ranger la camminata a piedi tra i cactus) abbiamo visto un uccello roadrunner un attraversare il sentiero proprio davanti a noi. Andava piano, Willy il Coyote non lo stava inseguendo.
Nelle stagioni più clementi l’esperienza della passeggiata è doverosa, e si può scegliere tra quattro percorsi a circuito, lunghi dai quattro agli otto chilometri, e con diverse pendenze. Per noi è stato un sacrificio doverci limitare a qualche passo per scattare le fotografie in mezzo ai Saguari, all’esterno del Visitor Center. Dentro si può vedere un film ricco di belle immagini fotografiche, ma avaro di informazioni sulla vita e sulle caratteristiche dei cactus.
La seconda missione era sapere tutto su Ettore “Ted” DeGrazia. La sommaria biografia raccolta quando avevamo cercato le attrazioni di Tucson lo descriveva, oltre al resto, pittore impressionista, scultore, compositore, architetto, gioielliere. Nato nel 1909 in America da una famiglia di emigranti dalla Sicilia, ha vissuto una vita di privazioni, umiliazioni, e grandi successi. Ce la racconta Lance P. Laber, executive director della DeGrazia Foundation, che incontriamo nella “DeGrazia Gallery in the Sun”, un Historic District di 40 mila metri quadrati ai piedi delle montagna di Santa Catalina, fuori Tucson. Lo stesso DeGrazia aveva comprato nel 1949 il terreno e fatto il design, perché voleva che avesse “un feeling del sud west”, ha lasciato scritto: “Volevo costruirlo affinché i miei dipinti si sentissero bene lì dentro”. L’artista italo-americano non era stato accolto a braccia aperte dalla comunità degli artisti locali, che lo criticavano dicendo che il suo stile era rozzo. Quanto ci fosse di razzista nell’isolamento decretato dalle élite non si sa, ma è un fatto che DeGrazia piacesse alla gente comune: “Venivano in 200mila all’anno qui su a visitare le opere e a comprare”, dice Laber. La sede del museo era stata aperta proprio come risposta all’ostracismo di cui era vittima: nessuno a Tucson li voleva esporre. Fu un successo, allora, ma ancora oggi, dopo la morte del pittore nel 1982, “vengono circa 20mila visitatori all’anno, da ogni parte, anche dall’Italia”, ci dice Laber. Accompagnandoci tra le sale e nel cortile all’esterno, ci spiega perché DeGrazia venga definito “l’artista più riprodotto al mondo”. “Nel 1957 dipinse un quadro, Los Niños, con 11 bambini che fanno il girotondo tenendosi per mano. L’Unicef lo scelse nel 1960 per una sua campagna pubblicitaria, stampando milioni di copie di cartoline di auguri. L’originale vale 1 milione di dollari ed è nella cassaforte della Fondazione”.
Appesa alla parete del museo c’è la copia che abbiamo fotografato e che, in effetti, è rappresentativa della sua arte. Lo stile è tra il naif e l’impressionista, con licenze di astrattismo. Ha tratti pittorici che si sforzano di fissare il movimento, con i soggetti che variano dai nativi americani, alle donne, ai bambini. Prolifico e insaziabile nelle sperimentazioni di forme artistiche, ha scolpito ceramiche e creato collane e monili di pietre semi preziose. Il tutto è esposto e alcuni esemplari, che appartengono alla Fondazione, sono in vendita: costano da qualche centinaia di dollari per le piccole ceramiche a, per esempio, 12.500 dollari per il quadro “Three Carousel Horses”.
Ettore aveva cominciato, da ragazzo, a lavorare con il babbo nella miniera di rame. In verità, la miniera chiuse quando lui aveva tre anni, e quindi la famiglia tornò in Italia. Dieci anni dopo, riaperta la miniera di rame, i DeGrazia tornarono in America. Ettore parlava italiano, e dovette ripartire dalla prima elementare, tredicenne, insieme ai piccoli di sei anni.
Studiò, e riprese a lavorare in miniera. Ma non era la sua strada, si sentiva un artista e cominciò a produrre quadri e altri oggetti. Ne fece tantissimi, in carriera, e 15 mila sono ospitati nella Galleria. Prese anche due lauree, in musica e arte, e un master in arte.
Spirito libero, andava d’accordo con gli indiani locali, che erano i suoi amici e compagni di bevute. Nel 1976 litigò invece con il ministero delle Finanze, che voleva fargli pagare una tassa del 77% sul suo patrimonio artistico, in caso fosse morto. Considerava la tassa sulla eredità una ingiustizia, e per protesta prese 100 suoi quadri, del valore di oltre 1,5 milioni di dollari (di allora), andò sulle montagne vicino a Phoenix con un gruppo di amici indiani e messicani, e molti giornalisti al seguito, e fece un falò della sua arte. Piuttosto che pagarci le tasse sopra.
Questo personaggio per noi è stata una vera scoperta. Un altro italo-americano a cui andrebbe data, dall’Italia, maggiore considerazione.
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