18. 31 agosto 2023 – Albuquerque

Qui non è Nuova York – Verso sud con Maria Teresa Cometto e Glauco Maggi

È un vero monumento ai graffiti, e attira centinaia di persone ogni giorno in un allegro pellegrinaggio nel deserto appena fuori Amarillo, in Texas. Uno si chiede se questo è un omaggio all’arte di strada o una provocazione, perché i graffiti sono una forma d’espressione, dissacrante nella sua natura, che vive di sfrontatezza, improvvisazione e dileggio. Le Dieci Cadillac in fila, parallele e in piedi, oblique e con i cofani interrati, in un campo incolto a qualche centinaio di metri dalla Route 66, sono invece un’opera in sé. E il suo fine è di celebrare e incoraggiare l’uso delle bombolette spray. Scriverci sopra, magari il cuoricino con i due nomi da innamorati che altrove deturperebbero statue e colonnati antichi, qui è quello che ci vuole, e che bisogna fare. Di fronte alla teoria delle vetture, infatti, ci sono sei enormi bidoni d’immondizia, variopinti anche loro, che stamatina alle 10 erano già mezzi pieni di bombolette usate.

La trovata di offrire al pubblico le carrozzerie di automobili iconiche, come le Cadillac, per lasciarsi andare a una ludica attività pittorica amatoriale, è del collettivo di artisti e architetti della Ant Farm, basata a San Francisco. Ma è stato un imprenditore visionario di qui, Stanley Marsch III, diventato milionario come re dell’elio che è l’ “oro” di Amarillo, a sponsorizzare il trasporto, in questa assolata radura, del  “Cadillac Ranch”, nome con cui è conosciuto. E, possiamo testimoniare, molto apprezzato dal popolo “on the road”.

Noi ci siamo fermati una mezzoretta sul posto, e avremo visto oltre una ventina di soggetti vari, singoli o in famiglia, che hanno lasciato l’auto dietro la rete di protezione, lungo lo stradone che fiancheggia la Route 66, e si sono incamminati a piedi per raggiungere il “Ranch” variopinto. Una coppia di persone molto anziane, lei con una carrozzella e lui che scuoteva due bombolette prima di scaricarle su qualche portiera. Una giapponese che, dopo aver “dipinto” un cofano, ci ha chiesto il favore di essere fotografata lì, davanti al suo “Bansky Moment”. Il giovane Joseph, bomboletta in mano, che ci ha sentito parlare e ci ha detto che era un italo-americano, originario della Calabria. Aveva viaggiato 15 ore il giorno prima per andare a trovare la nonna in Louisiana, dal Colorado, ma non voleva oggi perdere l’occasione di lasciare il suo marchio rosso sgargiante sulla prima macchina della fila. Una famiglia di ispanici, moglie marito e bambino, li abbiamo visti pericolosamente arrampicati su un mezzo, intenti a macchiare di giallo i fari posteriori di una Cadillac viola protesi verso il cielo.

Dopo aver fatto le foto che vedete qui sotto, arriviamo in fondo alla fila dall’altra parte, divertiti da quella tavolozza a cielo aperto sotto un bel cielo blu. Un signore distinto-sportivo di mezza età che sta scattando foto si gira verso di noi e… “ah, siete italiani? Io lo parlo un po’ perché mia mamma era italiana…” Di solito facciamo noi le domande ai tipi che incontriamo, ma con Daniel non c’è stato bisogno. “Parlo meglio il francese perché mio padre lavorava alla Segreteria di Stato e abbiamo vissuto diversi anni a Parigi”, attacca. “Ma giravamo in tutta Europa. Mio nonno, si diceva, era il figlio segreto di un barone di Bari e così andavamo frequentemente in Puglia a trovare mia nonna, che l’aveva sposato. Lei faceva la sarta e mi ha insegnato a cucire e a cucinare. Io ho fatto l’architetto tutta la vita e esercito anche adesso, da quasi pensionato. Abito a Montauk, a Long Island sopra New York. Sono andato a Seattle a trovare mia figlia e la sua famiglia, e adesso sto tornando a casa passando da Saint Louis”.

Bastano due incontri al volo per capire come l’infinita ragnatela d’asfalto di strade e superstrade che attraversano il Paese abbia una linfa continua di viaggiatori. Lo spirito del coast-to-coast è animato da gente così, insaziabile di miglia e curiosa. Daniel ha voluto sapere di noi, e quando abbiamo raccontato dei musei che abbiamo visitato, e che per noi meritano, ha preso nota ed era molto felice. Ci andrà, e seguirà il nostro diario, ha promesso, perché è appassionato di musei e sempre in cerca di idee.

Siamo finalmente ad Albuquerque, in tempo per l’ultima ora di apertura del Centro Culturale dei Pueblo. La storia di queste tribù, ben 19, che abitano nello Stato del New Mexico, è un’appendice della full immersion che abbiamo avuto visitando il museo degli indiani ad Oklahoma City. Chi vede, come abbiamo fatto noi in sequenza, i due musei che ripercorrono i travagli dei due popoli nativi americani, è portato a fare un confronto, impietoso ma oggettivo. Parliamo, infatti, di due tragedie storiche che hanno macchiato la storia umana nel Nuovo Mondo. (Non sono state le sole tragedie dell’umanità, però: nel Vecchio Continente, in Africa, in Asia, è successo, prima e durante le colpe dell’America, di tutto e di più).

Comunque, limitiamo pure questa analisi alle due tragedie americane. Il governo federale Usa, e il colonialismo dei nuovi americani, sono stati responsabili del genocidio degli indiani. Punto. Anche i Pueblo sono nativi americani, ma i loro carnefici non sono stati i federali Usa. Nell’ordine, si apprende dalla guida che ci mostra sala per sala la loro storia, i nativi dell’area che ora è il Nuovo Messico, chiamati Pueblo dagli spagnoli, sono stati massacrati e derubati dalle tribù nomadi indiane, specialmente gli Apaches e i Comanches. Poi sono arrivati gli spagnoli e i gesuiti, che, a complemento delle carneficine dei conquistadores, hanno cristianizzato popolazioni che ne avrebbero volentieri fatto a meno.

Quando sono entrati in scena gli Stati Uniti, i nativi del Nuovo Messico avevano già fatto accordi con la Spagna per “autogovernarsi” e sono stati assimilati al resto dei nativi americani. Ossia di quegli stessi indiani che li avevano sfruttati e soggiogati prima che il primo esploratore europeo mettesse piede in America. A quel punto i due destini, degli indiani e dei P-=ueblo, sono confluiti in uno, e anche i pueblo hanno dovuto  attendere il 1924 affinché il governo di Washington concedesse loro la cittadinanza.

All’Università del New Mexico incontriamo una perfetta “italica”, secondo la definizione di Piero Bassetti: così innamorata dell’Italia da comprare un appartamento a Perugia e viverci con il marito (ingegnere pensionato) per sei mesi l’anno. È Teresa Cutler-Broyles e ha scelto Perugia non a caso: è la sede dell’Umbra Institute, che offre programmi di studio all’estero per gli universitari americani. Teresa ci tiene corsi di cucina e cultura, e storia della cucina italiana, mentre alla University of Mexico tiene corsi sul cinema. Riesce a conciliare i due impegni perché le sue lezioni per gli studenti di Albuquerque sono soprattutto online.

“Mi sono innamorata dell’Italia fin da ragazza quando leggevo la storia di Pompei e di Roma”, racconta Teresa, nata ad Albuquerque e con laurea e due master alla University of New Mexico, dove hanno studiato anche il padre e la nonna. “Quando finalmente ho visitato il vostro Paese nel 2000 ho capito che volevo viverci. Mi hanno offerto di insegnare all’Umbra Institute e così riesco a passare lì metà anno. Nel tempo libero studio l’italiano e viaggio in tutta l’Italia e l’Europa”.

D’estate Teresa accompagna gli studenti di Albuquerque a Perugia per cinque settimane di “studio all’estero”. “Molti sono i primi in famiglia a frequentare un college e in Italia gli si apre un mondo nuovo”, racconta Teresa. Lei è specializzata in Historical Preservation e ci racconta che anche qui la “cancel culture” ha avuto effetti deleteri.

Ci accompagna nella bella storica biblioteca dell’Università dove dei grandi murales sono coperti da tendoni bianchi. Li scosta un poco per farceli sbirciare: sono stati dipinti fra il 1937 e il 1938 dall’artista Kenneth Adams, incaricato dalla stessa università di raffigurare indiani, spagnoli e anglosassoni, le tre razze qui presenti, come eguali e in collaborazione fra di loro per migliorare questa terra. “Ma un paio d’anni fa questi murales sono stati considerati razzisti, perché i bianchi sono dipinti come dottori e scienziati, mentre gli indiani lavorano i campi, il che era vero in quegli anni, e gli indigeni hanno volti senza espressione – spiega Teresa -. Quindi c’era chi voleva distruggerli. Io mi sono opposta, perché non puoi giudicare il passato con gli standard di oggi,ma puoi usarlo per discuterne. Alla fine hanno deciso solo di coprire i murales, almeno per ora”.

Teresa ci lascia con un dono: il contatto con Donatella Davanzo, l’italiana di Albuquerque che è la massima esperta della Route 66. La incontriamo con il marito Ennio, triestino come lei, alle 9 di sera perché Donatella – che è anche fotografa – ha dovuto aspettare a lungo il momento migliore per fotografare la Superluna blu.

“Quello che spinge gli americani ad amare e percorrere la Route 66 è la nostalgia degli Anni Sessanta – spiega Donatella -. A me interessa capire che cosa succede oggi sulla Route 66 alle comunità che ci abitano o che l’hanno abbandonata. Sto lavorando a un progetto sponsorizzato dai Parchi nazionali sull’etnicità della Route 66 e spero di finirlo per il 2026, il centenario della nascita della ‘Mother Route’ e di tradurlo in un mostra online”.

Tutto era iniziato dalla passione di Donatella per l’antropologia e per la cultura del Sud-Ovest degli USA. Con grande determinazione e caparbia è riuscita a conciliare il suo primo lavoro, al Comune di Trieste, con gli studi per il dottorato alla University of New Mexico fino a quando ha vinto la green card con la lotteria e si è stabilita definitivamente qui due anni fa.

Da un anno e mezzo è anche leader della piccola comunità italo-americana di Albuquerque. “Da questa primavera organizzo incontri con la formula potluck (ognuno porta qualcosa da condividere per mangiare) per favorire dialogo e connessioni, ma spero di organizzare presto anche appuntamenti culturali”, racconta Donatella. Che mantiene un piede in Italia: insegna “visual antropology” alla Etnographic Film School di Monselice (Padova). Insomma un vulcano di iniziative ponte fra l’America e l’Italia.

Per leggere le didascalie cliccare sulle foto

TORNA ALLA MAPPA DEL VIAGGIO
TORNA ALLA STOÀ

Le altre tappe del viaggio di Maria Teresa Cometto e Glauco Maggi

2023-09-01T08:55:21+02:00
Torna in cima