15. 28 agosto 2023 – Tulsa

Qui non è Nuova York – Verso sud con Maria Teresa Cometto e Glauco Maggi

“Voglio essere chiaro: non mi sento una vittima e non credo che Tulsa sia una città razzista, È una città come New York, come tante altre”. Jim Goodwin, afro-americano, 84 anni a novembre, lo ribadisce con determinazione a un certo punto della lunga conversazione avuta con noi oggi a Tulsa. Oltre ad essere un avvocato a tempo pieno è l’editore dell’Oklahoma Eagle, il giornale chiamato la voce della Black Tulsa.

Lo andiamo a trovare nel suo ufficio, nel cuore del quartiere Greenwood, il teatro di uno dei peggiori scoppi di violenza razzista nella storia americana. All’inizio del Novecento a Greenwood era fiorita una “Black Wall Street”, ricca di negozi e attività di tutti i generi. Segregata – a nord dei binari della ferrovia- ma florida. Fra il 31 maggio e il primo giugno 1921 una folla inferocita di bianchi assalì i cittadini e imprenditori neri e le loro famiglie, bruciò e distrusse case e negozi: una quarantina i morti ufficiali, ma secondo alcune stime furono 300. La scusa per il massacro era stata l’accusa a un ragazzo nero di aver molestato una ragazza bianca.

The Oklahoma Eagle fu fondato poco dopo il massacro, sulle ceneri del Tulsa Star, il primo giornale di Tulsa posseduto da un afro-americano. La sua missione, oltre a dare le notizie sulla comunità nera, era indagare e raccontare il massacro, su cui invece i giornali bianchi avevano steso un velo. Edward L. Goodwin, il padre di Jim, comprò The Oklahoma Eagle nel 1936 facendo aggiungere sotto la testata lo slogan “Miglioriamo l’America quando aiutiamo la nostra gente “.

Con questa storia ed eredità sulle spalle, fa impressione vedere la pacatezza con cui Jim risponde alle nostre domande sul razzismo. “Mia mamma mi diceva: ‘Non diventi pieno di rabbia se diventi migliore’. Nella mia carriera e nella mia vita personale non ho mai patito gli effetti del razzismo. Ho sempre lavorato con tutti: la mia segretaria di 40 anni è bianca, nella tipografia ho diversi operai bianchi e siedo con i bianchi nei consigli di diverse organizzazioni della città e dello stato. Certo bisogna essere vigilanti”. Jim Goodwin non ce l’ha neppure con il giudice bianco contro cui ha battagliato in tribunale per due anni rappresentando la famiglia di Terence Crutcher, un quarantenne nero ucciso da una poliziotta bianca nel 2016 a Tulsa: fermato per strada per un controllo, secondo la polizia sembrava volesse prendere una pistola dalla sua auto, ma in realtà era disarmato. La pratica gestita riguarda l’affidamento della gestione dell’eredità di Crutcher, che può essere cospicua se la famiglia vince la sua causa contro la polizia. “Invece di incaricare la sorella o i genitori come avrebbe dovuto, il giudice ha scelto due esecutori bianchi suoi amici – spiega Goodwin -. Mi chiedo se l’ha fatto per una questione di razza o per soldi. Non lo so”.

Il peso del massacro del 1921 sull’oggi , Goodwin lo sta trasformando in un progetto positivo. “Dopo il massacro, i neri ricostruirono Greenwood, ma paradossalmente fu la fine della segregazione a svuotare questo quartiere: liberi di andare dove volevano, i neri sono partiti per New York o altre città – ricorda -. Ora il quartiere è stravolto dalla superstrada I-244. Mia nipote Regina Goodwin, deputato del parlamento dell’Okahoma, sta cercando di far approvare la sua rimozione. E io sto elaborando un progetto per far rinascere il quartiere sull’area che si libererebbe”.

Jim Goodwin sogna un posto con cibo e musica afro-americani, un istituto in cui si racconti la storia della “Black Wall Street” e anche il ruolo dei giornali posseduti dai neri. “Ci sto lavorando con l’aiuto dell’intelligenza artificiale”, ci dice con l’entusiasmo di un ragazzo.

Poi chiama la sua assistente Cassandra Harris per farci scattare una foto insieme e ci regala un’ultima chicca: Cassandra è una discendente di Pocahontas! “L’ha scoperto mia zia che è una genealogista”, spiega lei con orgoglio, e ci raccomanda di andare a visitare il museo dei First Americans a Oklahoma City, la nostra tappa di domani.

(A chi vuole saperne di più sul massacro di Tulsa consigliamo il libro “Built from the fire” di Victor Luckerson)

Prima di arrivare a Tulsa ci eravamo fermati vicino a Bentonville, nella cittadina di Tontitown, dove abbiamo scoperto un’altra incredibile storia. Quella delle 40 famiglie italiane arrivate qui nel 1898, fuggite a piedi – da una piantagione di cotone nel sud dell’Arkansas – camminando per tre settimane nel caldo di luglio fino alle colline Ozarks.

Una storia iniziata in tragedia, ma diventata un caso di successo: oggi Tontitown conta 4.300 abitanti, il triplo di 20 anni fa. “Molta gente si è trasferita qui soprattutto durante il Covid, attirata dal buon clima e dai prezzi bassi delle case – ci spiega Emily Pianalto-Beshears, assistente del Tontitown Historical Museum. “La maggior parte lavora a Bentonville per Walmart. Ma le tradizioni italiane sono ancora vivissime: dal 1898 facciamo  il Festival dell’Uva con la partecipazione, adesso, di oltre 2 mila persone per serata”. Ed è ancora attiva un’azienda vinicola di italiani, Ranalli Farms.

Ci sono similitudini con la storia della Little Italy di Little Rock: anche queste famiglie venivano soprattutto dal Veneto, anche loro truffate: sono finite inizialmente nella piantagione di Sunnyside dove il padrone, dopo l’abolizione dello schiavismo, voleva sostituire i neri con forza lavoro a poco prezzo e l’ha trovata negli immigrati italiani. I quali se n’erano andati dalla loro patria perché stufi di pagare troppe tasse e desiderosi di una vita migliore.

“Mio bisnonno Leo è venuto in America quando aveva otto anni – ci racconta Emilia -. A Sunnyside, lui e la sua famiglia, insieme ad altre cento famiglie di immigrati italiani, hanno vissuto in condizioni disumane: molti sono morti di malaria e altre malattie, con i medici americani che si rifiutavano di curarli, perché gli italiani avevano lo stigma di essere dei poco di buono. Hanno avuto la fortuna che un prete, Pietro Bandini, venuto a conoscenza della loro situazione è andato letteralmente a salvarli, aiutandoli ad andarsene e venire qui nel nord dell’Arkansas”.

Ora sono in corso di produzione ben due documentari sugli italiani a Tontitown: uno è a cura di una newyorkese trapiantata qui e interessata in particolare alla storia della chiesa e della comunità cattolica; l’altro è di un professore della Università dell’Arkansas, che è già stata partner del museo e che quest’anno per la prima volta ha aperto un Master in Italiano.

“Ma io non parlo italiano, purtroppo – confessa Emily -. Bandini aveva imposto subito che tutti gli italiani imparassero l’inglese e presto i genitori hanno smesso di insegnare la loro lingua ai figli temendo fossero discriminati. Eppure mio papà a scuola, negli Anni Sessanta, era ancora chiamato ‘dago’, l’insulto razziale riservato agli italiani!”.

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Le altre tappe del viaggio di Maria Teresa Cometto e Glauco Maggi

2023-08-29T13:29:06+02:00
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