12. 26 agosto 2023 – Little Rock
Qui non è Nuova York – Verso sud con Maria Teresa Cometto e Glauco Maggi
Molto divertente. Se si vuol dare un giudizio alle visite nelle biblioteche presidenziali, a nostro giudizio, è questo il metro che va usato. E Bill Clinton è stato all’altezza con il suo Centro a Little Rock, la capitale dell’Arkansas di cui lui è stato governatore prima di diventare presidente.
L’idea di riprodurre una replica fedele della Stanza Ovale in scala perfetta con l’originale è già un ottimo punto di partenza. Ma lui ci ha aggiunto un tocco di brillante affarismo. Chi non ha sognato di sedersi al desk di un presidente? E qui si può fare, sollecitati da uno staff preparato. Due assistenti regolano l’accesso al pubblico, e invitano a sedersi sulla poltrona del potere. Un fotografo, davanti alla scrivania, dà in modo perentorio, ma simpatico, gli ordini del caso: “siediti con le mani sul tavolo e sorridimi”; “apri davanti a te la cartella nera che è alla tua destra e firma il foglio bianco (simboleggia il momento istituzionale della proposta passata dal Congresso che diventa legge). Se si è in due, o in tre, quello seduto allo scranno fa il presidente, e il resto fa da contorno alla firma della legge. Ogni ordine genera uno scatto, e ogni fotografia genera reddito per la fondazione che gestisce la Library: 15 dollaro per ogni immagine. Wow. Ci voleva Bill per creare un business offrendo l’esperienza di immortalarsi nei suoi panni da leader del mondo. E se a qualcuno viene in mente qualche momento meno solenne della presidenza Clinton, a quella scrivania? Ok, niente di male, è compreso nel prezzo. I dollari circolano, nella Library, anche sotto forma di conti per le cene al Ristorante 42 ( il numero della sua presidenza), che è al piano inferiore. Al piano di sopra, notiamo anche un enorme salone con decine di tavoli con le tovaglie bianche. Un evento speciale è forse imminente. E al quinto piano c’è un appartamento da 190 metri quadrati dove Clinton sta e dorme quando visita Little Rock.
Accessibile è pure una riproduzione della stanza dove si riuniva il gabinetto di governo: attorno ad un lungo tavolo ovale ci sono le sedie di pelle, una per ogni ministro, ognuna con la sua targhetta dietro allo schienale. La curiosità è che il presidente non siede a capo tavola, ma a metà del tavolone, nella sedia con lo schienale più alto. Ci si può sedere su quelle sedie, gratis!, e Maria Teresa non ha resistito ad un secondo sfoggio.
Molto divertente, come dicevamo. E in linea con il carattere di Clinton, piacione e simpatico. Lungo il corridoio dei regali ricevuti e degli oggetti a lui cari spiccano i sassofoni, una vera passione che lasciò quando trovò che la politica lo era anche di più. I pannelli che documentano la sua vita sono fatti molto bene tecnicamente. Sono chiari e offrono l’occasione di un viaggio nel passato recente che sono stati benedetti da una congiuntura storica perfetta. Bill ha avuto la ventura di regnare in un decennio che ha goduto del dividendo economico e politico del crollo del Muro di Berlino, con la speranza illusoria della pace irreversibile e della fine della storia annunciata nel 1992 dallo studioso americano Francis Fukuyama.
Il decennio di Bill ha vissuto una primavera tecnologica mai vista prima, esplosa nel boom di Internet e nella bolla di Wall Street. Chi era un adulto in quegli anni non può che rimpiangerli oggi, e non solo per la diversa età. Bill esce di scena nel gennaio 2001 e scorrendo i pannelli dei suoi ultimi anni (ma la tresca con Monica Levinski compare, senza il suo nome, soltanto dove si parla dell’impeachment), io e Maria Teresa ci siamo ritrovati a vivere le attese e le preoccupazioni del 1999 e del 2000, quando stavamo facendo i preparativi per venire a vivere in America. Arrivando a fine luglio del 2000, eravamo negli ultimi mesi di Clinton, e in piena campagna elettorale tra Al Gore, il suo vice, e George W. Bush, il Repubblicano. Non è affatto una forzatura spiegare i nostri sforzi per venire qui, in quegli anni di fine Millennio, con la visione ottimistica, ultra positiva, che trasmetteva quell’America.
Non c’è solo Little Rock in Arkansas. Abbiamo fatto un altro tuffo nel passato, stavolta un secolo indietro, quando abbiamo visitato Little Italy, in collina (ma lo stesso caldissima, oggi 39 gradi!) a tre quarti d’ora dal Museo di Clinton. Non è un rione di una città più grande, ma un villaggio indipendente che una volta si chiamava AltaVilla, e poi è diventato proprio Little Italy of USA. Nella cittadina vivono circa 500 persone, di cui circa 75 discendono dalle 15 famiglie che originariamente si sistemarono qui, tra il 1915 e il 1920, soprattutto dal Veneto e dall’Umbria, e una sola dal Sud. La loro storia non è di ordinaria immigrazione, ma una corsa coraggiosa al west alla ricerca di una terra vergine su cui costruire il loro avvenire. Joseph e Maria Belotti, e altre famiglie – Ghidotti, Zulpo, Vaccari, Carraro, Balsam -, con una quarantina di bambini secondo il Censo del 1920, avevano lasciato Chicago.
Volevano tornare a fare gli agricoltori, come in Italia, e videro un annuncio pubblicitario che offriva un ampio terreno boschivo in Arkansas, sopra Little Rock. Il venditore era un truffatore, però. Vendette gli appezzamenti agli italiani, che quando poco dopo si trasferirono scoprirono che tutti gli alberi erano stati segati e venduti. Perso un reddito che era di loro spettanza, si rimboccarono le maniche e cominciarono a coltivare: vigneti, aglio ed altri vegetali. Il vino che producevano, e l’hanno fatto per 40 anni, si trasformò in “oro” al tempo del proibizionismo.
Ce lo ha raccontato Chris Dorer, italo-americano che discende dai pionieri, vive ancora a Little Italy ed è il curatore del Museo dell’Italian Heritage (della tradizione italiana), aperto nel 2019 e finanziato dalle famiglie italo-americane della città.
Little Italy era diventata la meta di migliaia di americani che vivevano a Little Rock e nelle città sparse attorno e che aspettavano con ansia il Festival dell’Uva, che in realtà era una sagra del vino. Durava tre giorni, un lungo weekend, e i 300 italiani attiravano fino a 5 mila visitatori all’anno. Il successo era dovuto al fatto di poter andare a bere vino e grappa a volontà. E senza correre rischi legali, poiché la comunità di Little Italy aveva eletto come sceriffo uno degli immigrati, che si era fatto amico del governatore. Il quale sapeva benissimo che genere di “mercato” si svolgesse durante il Festival, ma guardava dall’altra parte per un motivo di “salute pubblica”. Quello prodotto a Little Italy era infatti un alcol “pulito”, con i crismi della tecnica italiana, molto diverso dalle bevande alcoliche che pure gli americani producevano di nascosto ma che avvelenavano la gente. La “tre giorni” di Little Italy permetteva agli italiani di farsi un anno di fatturato: oltre ai 5 centesimi per un bicchiere di “succo d’uva”, vendevano gli spaghetti a 20 centesimi al piatto. Finito il proibizionismo, è sopravvissuta la tradizione del Festival, che oggi ha un pubblico di 1.500 visitatori e la finalità di raccogliere fondi per la locale chiesa di San Francesco. Le quattro aziende vinicole sono fallite quando l’alcol è tornato legale, ma ci sono ancora alcuni vigneti che fanno il vino ad uso privato.
Soprattutto fra i discendenti dei pionieri, anche i giovani che vivono altrove – molti in città a Little Rock – c’è forte passione nel voler tener viva le proprie tradizioni e tramandare la propria storia.
La Storia è la materia che Chris Dorer insegna alla Little Rock Central High School. Gli chiediamo che cosa sta succedendo nelle scuole dell’Arkansas. Una guida della Biblioteca presidenziale di Clinton ci aveva detto che il governatore di questo stato non vuole più che si insegni la storia degli Afro-americani. “È una polemica a proposito dei corsi avanzati (AP, advanced placement ) nelle scuole medie superiori che danno crediti per il college – ci spiega -. Dall’anno scorso il College Board ha introdotto un nuovo corso di studi afro-americani. L’anno scorso la mia scuola l’ha sperimentato con una classe di 20 studenti. Quest’anno abbiamo quattro classi con 100 studenti. Ma tre giorni prima dell’inizio delle lezioni è arrivata la notizia che lo stato ha deciso di non riconoscere i crediti per chi frequenta questo corso: crede che il corso insegni la Critical race theory (la tesi sul razzismo sistemico e fondante dell’America) e voglia indottrinare i ragazzi. Ma nel programma non c’è niente di tutto questo. L’ultima notizia, a oggi, è che lo stato ha chiesto il testo del programma per valutarlo. Forse cambierà parere. Noi comunque abbiamo deciso di andare avanti lo stesso, proprio per la storia della nostra scuola”.
La Little Rock Central High School infatti ha avuto un ruolo importante nella lotta per i diritti civili. Dopo la sentenza della Corte Suprema che nel 1954 aveva dichiarato incostituzionale la segregazione nelle scuole, il governatore bianco dell’Arkansas si oppose all’applicazione della sentenza. Così quando i primi nove studenti neri nel 1957 furono ammessi alla prestigiosa Little Rock Central High School, il governatore ordinò alle guardie nazionali di impedir loro di entrare. I giudici federali decretarono la illegalità di quell’ordine e incaricarono la polizia di difendere i nove ragazzi e di scortarli a scuola. Quel giorno, il 23 settembre 1957, una folla di razzisti assalì i ragazzi e chi li difendeva e sosteneva: quelle immagini di estrema brutalità fecero il giro del mondo suscitando grande sdegno. Il presidente Eisenhower prese il comando della Guardia nazionale e mandò 1.200 soldati per accompagnare i nove ragazzi dentro la scuola.
È stata una crisi che ha risvegliato molte coscienze. Bill Clinton aveva 11 anni nel 1957 e l’abbiamo sentito dire stamattina, nel video introduttivo alla sua Biblioteca presidenziale, che il ricordo di quei giorni – e poi le parole di Martin Luther King – sono stati una molla per il suo impegno politico.
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