10. 23 agosto 2023 – Atlanta
Qui non è Nuova York – Verso sud con Maria Teresa Cometto e Glauco Maggi
“Da Martin Luther King Jr. sono passati – e conta con le dita della mano – “10, 20, 30, 40 e più anni e tante cose sono cambiate ma…adesso i giovani vogliono tutto in fretta”. Il ranger afroamericano Bruce Lee ci ha fatto da guida alla casa natale di King, che è curata come tutti i siti storici dal Servizio dei Parchi Nazionali, e alla fine del tour risponde in modo criptico alla nostra domanda: “Lei crede che la lezione di MLK sia ancora valida o sia superata dai tempi?”. Noi abbiamo appena letto, accanto alla “fontana della riflessione”, che dal 2006 ospita le spoglie di King e della moglie Coretta King, i pannelli che riportano i principi filosofico-religiosi alla base dell’azione politica del maggior leader del riscatto dei neri nel secolo scorso. Il primo recita: “La non violenza è il modo di vivere della gente coraggiosa: è l’attiva resistenza non violenta al male, è aggressiva spiritualmente, mentalmente ed emotivamente”. Nel secondo si legge che King ha avuto la sua ispirazione da Gesù Cristo e le sue tecniche da Gandhi. Insistiamo, per cercare di capire che cosa intenda il ranger parlando di “fretta dei giovani” e lui cita il caso di George Floyd (il nero ucciso da un poliziotto bianco nel 2020 a Minneapolis): “Dopo la sua morte sono venuti in tanti qui giù ad Atlanta, a protestare con diversi cortei davanti al Parco di King…” Violenti o pacifici? “Pacifici, pacifici”, e non va oltre.
La lotta recente contro il razzismo in America ha, nei fatti ma anche in tante affermazioni dei nuovi leader della protesta, ripudiato il messaggio di MLK. Ibram X. Kendi, campione della Teoria Critica della Razza esposta nel suo libro più celebre “How to be an Antiracist” (Come essere un Antirazzista) parte dalla convinzione che il razzismo dei bianchi è sistemico e va contrastato con il razzismo anti-bianco. In altre parole, che l’integrazione perseguita da King era un obiettivo falso. Che non c’è conciliazione possibile tra la razza oppressiva dei bianchi (e degli ispanici e degli asiatici se si comportano da bianchi) e la razza oppressa dei neri.
“I have a dream ( io ho un sogno)”, ha detto invece King nel suo discorso più celebrato, e a risentirlo nei filmati dal vivo sullo schermo del Parco a lui dedicato fa venire la pelle d’oca ancora oggi. Ricordiamo di averlo letto tante volte in Italia, quando da giovani universitari partecipavamo ai movimenti per la causa della emancipazione dei neri americani e contro l’apartheid in Sudafrica. Ma se fare da Milano il tifo per cause progressive lontane è cosa buona e giusta, trovarsi al fianco di tante famiglie di afro-americani, a due passi da dove è nato MLK, è esperienza diversa. King disse, nel comizio del 18 agosto 1963 durante la storica immensa marcia su Washington, che fu un passo decisivo per l’approvazione della legge sui diritti civili passata due anni dopo dal Congresso: “Ho un sogno che un giorno sulle rosse colline della Georgia i figli degli ex schiavi e i figli degli ex padroni di schiavi saranno in grado di sedersi insieme al tavolo della fratellanza. Io sogno che i miei quattro figli vivranno un giorno in una nazione in cui non saranno giudicati per il colore della loro pelle ma per il contenuto del loro carattere”. Mi immagino che cosa provino le mamme e i papà che vedono quel video, assieme ai bambini che tengono per mano e che non sanno quante lotte hanno sostenuto i loro nonni per farli frequentare, oggi, le stesse scuole degli amici bianchi.
Nessuno può sostenere che nella America attuale siano rose e fiori per tutti i neri o per tutti gli ispanici. Che i problemi e gli ostacoli verso una integrazione perfetta non siano ancora presenti nella società USA. Ma un fatto è passato alla Storia: le battaglie di King hanno piegato il Ku Klux Klan, che allora linciava la gente e impediva ai neri di iscriversi per votare e di andare nelle stesse aule con i bianchi. MLK aveva un obiettivo preciso, l’abbattimento della vergogna di discriminazioni vere, tangibili, umilianti. E con il suo popolo, e con le sue tecniche non violente, fece vergognare milioni di bianchi e li portò a battersi con loro. E a vincere, imponendo leggi che hanno trasformato la nazione, nelle scuole, nei ristoranti, nei posti di lavoro, e sui bus e i treni.
Quali siano gli obiettivi degli antirazzisti di oggi non è affatto chiaro. E le violenze e i vandalismi nelle strade e nei negozi durante le proteste di Black Lives Matter e degli Antifa costituiscono una tattica agli antipodi di quella non violenta di King, e destinata ad alienare le simpatie della maggioranza della gente di ogni colore.
Queste riflessioni le abbiamo fatte dopo aver lasciato la casa natale di King. Figlio e nipote di pastori battisti, è cresciuto in una famiglia mediamente agiata, nel quartiere segregato di Sweet Auburn Avenue di Atlanta. Ha seguito la carriera del padre, ma ha lasciato presto la chiesa di Ebenezer della sua infanzia per andare a Boston a studiare teologia. Oratore brillante, a 26 anni era già avviato alla missione di guida spirituale, e poi politica, del movimento nazionale per l’emancipazione.
La visita alla casa ci ha fatto conoscere gente di principi morali saldissimi che conduceva una vita normalmente felice: Martin Luther da bambino andava matto per il Monopoli! La sua adesione alla lotta per i diritti umani era il risultato di una cultura religiosa militante, sincera.
Non lontano dal Parco di King c’è il Capitol della Georgia, che è in piena ristrutturazione ma consente le visite. I lavori finiranno a novembre, e abbiamo imparato, anche dalle precedenti capitali visitate, che questa stagione è quella usata per i miglioramenti: infatti l’attività legislativa dura dai due ai tre mesi, di solito nel primo semestre. I deputati e i senatori statali non sono professionisti della politica e tutti hanno una loro occupazione. Solo il governatore, capo dell’amministrazione, è a tempo pieno.
Verso casa, abbiamo fatto una sosta doppiamente obbligata per chi visita Atlanta. Il parco con i cinque cerchi olimpici celebra i Giochi del Centenario, nel 1996, un secolo esatto dopo le Olimpiadi di Atene che aprirono l’era dei giochi moderni. È pieno di richiami alla Coca Cola, che fu uno dei maggiori sponsor dell’evento. La bibita gasata, universalmente nota, fu inventata da un farmacista in un negozio non lontano dal parco nel 1886. Vendette la formula due anni dopo per pochi dollari a un investitore che la rivendette per 25 mila dollari, che a sua volta la diede a un terzo che la pagò una fortuna, diversi milioni, ma che fece comunque un affare mai eguagliato da altri.
La formula è ancora segreta oggi, e la visita al Museo della Coca Cola, a fianco del parco olimpico, è divertente. Gli italiani hanno subito una gradita sorpresa: appena dentro, nell’auditorium si assiste ad uno spot di alta qualità cinematografica, ma la prima immagine è dedicata ad un aforisma di Cesare Pavese: “Non si ricordano i giorni, si ricordano gli attimi.” Poi ci sono le sale con le pareti sgargianti della grafica colorata di centinaia di manifesti e quadri, uno di Andy Wharol.
Si possono assaggiare decine di altre “coca-cole” vendute nel mondo, e prima di uscire si possono confrontare le imitazioni con l’originale. Nel 1985 il management della società commise la sciocchezza di variare la formula chimica. Il mercato fu spietato, e bocciò la modifica in modo vocale e molto convincente: 79 giorni dopo l’introduzione della novità, fu rimessa in produzione la “Classica” formula, e l’altra uscì di produzione quatta quatta.
Forse è stato il caso di tentato suicidio industriale-commerciale più clamoroso della storia.
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